28 novembre 2012

Sonnambuli tra le macerie - Schlafwandler durch die Trümmer


Sonnambuli tra le macerie - Schlafwandler durch die Trümmer

Il Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale e la Biblioteca Austriaca organizzano a Trento, mercoledì 28 novembre, alle ore 17,30, nella Sala degli affreschi della Biblioteca comunale (Via Roma 55), l’incontro-dibattito Sonnambuli tra le macerie. Interviene Alessandro Fambrini. Introduce Massimo Libardi.

Kriegsfahrungen

Con l’incontro-dibattito Sonnambuli tra le macerie prosegue il ciclo di incontri “Narrare la storia. Il Novecento nella letteratura tedesca”, organizzato dal Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale con la collaborazione della Biblioteca Austriaca.


Con questa iniziativa si intende ripercorrere attraverso alcuni romanzi particolarmente significativi la storia del mondo germanofono nel corso del Novecento. Ogni incontro avrà al centro alcuni romanzi che fungeranno da stimolo per raccontare uno o più decenni di storia.


In questo quarto incontro interviene Alessandro Fambrini, professore associato di Letteratura tedesca all’Università degli studi di Trento.


Gli anni Venti sono segnati in Germania e nei paesi di lingua tedesca da un momento di incredibile fermento, di caos e di vitalità che si ripercuotono in ogni ambito, da quello della vita politica e sociale a quello artistico. Tra le oscillazioni e le fibrillazioni di una società in continuo, febbrile mutamento scaturiscono in letteratura opere che tentano di trattenere entro i confini tradizionali della forma narrativa le tensioni e le pulsioni del reale.

Una delle prime e più vistose conseguenze è che tali tensioni e pulsioni finiscono inevitabilmente per travolgere quelle stesse strutture che dovrebbero ospitarle e dar loro voce. Si apre così una stagione che segna da una parte il culmine di un’epoca ormai tramontata e dall’altra ne inaugura una nuova. Due romanzi, apparsi sul limitare del decennio, riflettono emblematicamente questa condizione del loro tempo: da una parte la trilogia dei Sonnambuli di Hermann Broch, con l’ambiziosa aspirazione di contenere integralmente la tradizione del grande romanzo ottocentesco e insieme di dichiararne il trapasso, tanto nella forma quanto nella molteplicità dei fili tematici; e dall’altra Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, in cui l’illusione di ricostruzione psicologica, la definizione dell’individualità come perno della dimensione narrativa, lasciano il passo alla coralità delle voci e alla frammentazione delle esperienze che corrispondono al respiro della metropoli, della grande città che si fa protagonista al di sopra dei singoli accadimenti e dei destini di chi ne fa parte.


Dietro a tutto questo, la sensazione che la stagione del romanzo così come si è affermato nel corso del secolo precedente sia definitivamente chiusa, e che un’altra stia per aprirsi: ancora incerta e indistinta, come le costellazioni che queste due opere lasciano intravedere.

(di Massimo Libardi)


Die Trümmer der Wilhelmstraße - Berlin

Other links:

CSSEO - Centro Studi sulla Storia dell'Europa Orientale

Bildertanz


24 novembre 2012

Eric D. Weitz - Weimar


La Germania di Weimar

Speranza e tragedia

Eric D. Weitz
Traduzione italiana di Piero Arlorio
Einaudi, 2008
ISBN 978-88-06-19421-5
Original title: Weimar Germany. Promise and Tragedy, 2007, Princeton University Press


Eric D. Weitz is Distinguished McKnight University Professor at University of Minnesota, where he teaches Contemporary History. Among his books we sign Creating German Communism, 1890-1990: From Popular Protests to Socialist State (1997) and A Century of Genocide: Utopias of Race and Nation (2003)

Novemberrevolution und Weimarer Republik

From Introduction/
Introduzione – dalla versione italiana:

p. 4: «La Repubblica di Weimar evoca i timori sia della possibili conseguenze del mancato consenso sociale sulla direzione da prendere, sia della trasformazione di differenze magari limitate in battaglie politiche vitali; con la conseguente diffusione dell’assassinio e della battaglia di strada, e le minoranze che diventano comodi capri espiatori delle forze antidemocratiche. Un segno ammonitore, si diceva, perché tutti sappiamo come andò a finire, con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo il 30 gennaio 1933.
Nonostante tali conflitti e disastri, Weimar fu un periodo di grande fioritura politica e culturale. La fine del vecchio ordinamento imperiale travolto da guerra e rivoluzione liberò il campo all’immaginazione sociale e politica. Per quasi un quindicennio, i tedeschi crearono e mantennero in vita un ordinamento politico ampiamente liberale con consistenti programmi di welfare. La vita di moti cittadini migliorò, con la riduzione, tra l’altro, dell’orario di lavoro a otto ore quotidiane, almeno nei primi anni della repubblica; mentre il sussidio di disoccupazione sembrò annunciare una nuova era nella quale i lavoratori sarebbero stati protetti dalle oscillazioni del ciclo economico. Nuovi complessi residenziali costruiti nell’ambito di programmi di edilizia pubblica offrirono agli operai più qualificati e ai colletti bianchi la possibilità di traslocare dai vecchi alloggi in appartamenti moderni dotati di servizi igienici interni, di acqua corrente, gas, elettricità. Le donne ottennero il diritto di voto; sorse, finalmente, una stampa vivace e libera. Dal nudismo al comunismo, si elaborarono i progetti più disparati per la realizzazione di una società futura fiorente e armoniosa. Sessuologi e attivisti politici si fecero sostenitori del diritto di tutti a una vita sessuale ricca e gratificante.
p. 5 Cinema e mondo dello spettacolo diffusero il sogno di una vita più agiata grazie alla moltiplicazione dei beni di consumo, sebbene il mattino dopo bisognasse pur sempre essere al lavoro alle sette in punto, in fabbrica, in ufficio, in negozio. Gli ideali utopistici sorsero sulla scorta della guerra e della rivoluzione. C’era la certezza di poter cambiare radicalmente il mondo: secondo alcuni con l’architettura, l’abitazione in comune, la fotografia; secondo altri con le manifestazioni di massa. Certezze e convinzioni che stimolarono la produzione artistica e ispirarono ampie riflessioni filosofiche.
Un percorso, e un impegno, non certo esclusivi dei tedeschi. Sull’onda e nel turbinio della prima guerra mondiale, le donne ottennero il diritto di voto in Gran Bretagna; artisti giunsero in gran numero a Parigi, architetti olandesi crearono edifici dalle forme nuove; a Vienna, a Budapest, a Pietrogrado, le masse e i partiti rovesciarono regimi imperiali antiquati e accarezzarono speranze di un futuro politico più luminoso. I tedeschi guardarono a questi movimenti e ne trassero insegnamento, nel bene e nel male. Nell’esperienza della Germania di questo periodo c’era tuttavia qualcosa di particolarmente intenso e ingombrante: a differenza dei suoi vicini occidentali, la Germania aveva perso la guerra. Un fatto dalle profonde conseguenze economiche, politiche, psicologiche. In pratica, non c’era argomento o dibattito su cui non si proiettasse l’ombra della responsabilità della guerra e dei costi delle riparazioni. La sconfitta impediva qualsiasi risarcimento delle sofferenze patite da donne e uomini tedeschi per quattro terribili anni. Nessun guadagno finanziario; neppure l’ombra dell’euforia che normalmente si accompagna alla vittoria in una lotta pluriennale. A differenza dei russi, loro vicini orientali, i tedeschi non sperimentarono una rivoluzione radicale che privasse completamente di potere e di prestigio le élite tradizionali. La Germania rimase per così dire a metà strada; con la sua rivoluzione che senz’altro democratizzò il paese ma non intaccò a fondo il vecchio ordinamento sociale. Risultato: mancanza di consenso e dibattito permanente. Le questioni di fondo riguardanti la convivenza dei tedeschi tra loro e con i loro vicini rimasero oggetto di insanabile discordia.
Il potere distruttivo della guerra totale e quello creativo della rivoluzione – esperienze condivise da molti europei che assunsero, però, in Germania, una colorazione assai particolare – alimentarono l’opera e il pensiero dei protagonisti di Weimar».


[…]


p. 7: «Nello stesso tempo ho prestato particolare attenzione alle rigide limitazioni della società weimariana: imposte dagli Alleati, da un’economia internazionale stagnante, dal peso delle tradizioni autoritarie della Germania, dall’emergere di una nuova destra estremista particolarmente pericolosa e dedita alla violenza. Infine, ovviamente, ho preso in considerazione ciò che non funzionò, l’esito finale disastroso, e ho cercato di dimostrare che quello di Weimar non fu un semplice crollo. Weimar fu infatti spinta nel precipizio dall’opera combinata di una destra tradizionale, ostile alla repubblica dal giorno stesso della sua creazione, e di una destra più nuova e più estrema. La destra tradizionale – composta di uomini d’affari, di nobili, di funzionari statali, di ufficiali dell’esercito – era potente e ben radicata. Anche i comunisti cercarono di seppellire la repubblica, ma fu sempre la destra a costituire il pericolo più grave.
I dodici anni del Terzo Reich non riuscirono, tuttavia, a connotare univocamente i precedenti quattordici anni della Repubblica di Weimar. Nessun evento storico è predeterminato; tanto meno lo fu la vittoria del nazionalsocialismo. p. 8 Conflitti e limiti del periodo weimariano contribuirono indubbiamente ad alimentare il movimento nazionalsocialista, ma è un travisamento presentare Weimar come mero preludio del Terzo Reich. La Germania di Weimar fu un momento ricco e pieno di fermenti, e molte opere artistiche, speculazioni filosofiche e ipotesi politiche che si svilupparono nel suo grembo generarono visioni luminose di un mondo migliore. Visioni che continuano ad avere un significato per noi, oggi».


Inflation - 1923
From chapter 4

Economia turbolenta e società in ansia

pp. 149-152:

«“Die Wirtschaft ist das Schicksal” (l’economia è il destino), scrisse Walter Rathenau, industriale, idealista, ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar. Sostanzialmente, aveva ragione. Nelle condizioni più favorevoli, la creazione di una democrazia compiuta in Germania sarebbe stata impresa assai ardua, tante e potenti erano le forze antidemocratiche nella società e nell’agone politico. E tuttavia, «le condizioni più favorevoli» non si verificarono mai per la Repubblica di Weimar. Nata sulla scia della prima guerra mondiale tra i fuochi incrociati della rivoluzione e della guerra civile, per conquistarsi l’appoggio e il sostegno della maggioranza dei cittadini tedeschi avrebbe avuto bisogno di un’economia solida e in espansione. Ciò che, appunto, non ebbe. Gli anni della crescita economica furono effimeri, e costruiti su una grave debolezza strutturale i loro risultati. In compenso, numerosi furono gli anni di crisi con conseguenze assai pesanti. Nel periodo weimariano, i tedeschi vissero ben tre “capovolgimenti del mondo”: riassetto postbellico, iperinflazione, Grande Depressione economica. Non stupisce che, alla fine, non si sia creata una maggioranza favorevole alla repubblica. I tedeschi erano in sofferenza sul piano economico e si azzuffavano sulle questioni economiche grandi e piccole. Tassazione, riparazione dei danni di guerra, rappresentanza sindacale, innovazioni tecnologiche, principio stesso della proprietà privata: altrettante questioni oggetto di aspro dibattito. E un punto percentuale in più o in meno della tassazione, o il numero (uno? due? cinque?) dei rappresentanti sindacali presenti nel consiglio di amministrazione di un’impresa, non erano questione di semplice scelta di una linea politica! Per diritto o per traverso, ciascuna questione economica diventò scelta di fondo sulla convivenza dei tedeschi tra loro o con gli altri paesi nel periodo postbellico. Qualsiasi disputa di politica rischiava di mettere in crisi l’esistenza stessa de “il sistema”, come la destra sprezzantemente chiamava la Repubblica di Weimar. Si ebbero, senza alcun dubbio, momenti di accordo, di convergenza, in particolare tra coloro a vario titolo coinvolti nel processo produttivo: industriali, sindacati, Stato. Nei primi anni della repubblica, collaborarono per arginare l’inflazione, fino a quando prese a correre incontrollata e incontrollabile. Nella fase mediana, tutti costoro appoggiarono la “razionalizzazione”. I tedeschi colpiti duramente da inflazione e razionalizzazione, per non parlare della depressione economica, erano però legioni, e il loro scontento trovò accoglienza a destra e a sinistra. Politica ed economia procedevano a braccetto: i problemi economici di Weimar erano enormi e per molti aspetti inusitati; le possibili soluzioni politiche, oggetto di aspro dibattito e scontro.
In mezzo a un dibattito sociale e politico estremizzato, nella turbolenza dei boom e dei crolli dell’economia, i tedeschi si trovarono a vivere in un periodo contrassegnato da un misto di “relativa stagnazione economica” e di “modernizzazione accelerata”. Due indicatori in apparente netta contraddizione, ma proprio la loro compresenza conferma, una volta ancora, il carattere complesso e conflittuale degli anni di Weimar. Confrontati con quelli dei periodi anteriori al 1914 e posteriori al 1945, i tassi di crescita di Weimar appaiono più contenuti e limitate le ripercussioni macroeconomiche dell’innovazione tecnologica. Negli anni Venti non ci furono innovazioni nei settori trainanti con ampio effetto di stimolo sull’economia. Nulla di paragonabile all’impatto della produzione tessile nella fase iniziale dell’industrializzazione, alle innovazioni nell’industria dell’acciaio negli anni Ottanta del XIX secolo o nell’industria chimica nel periodo compreso, grosso modo, tra il 1890 e il 1914; per tacere dello sviluppo dei computer negli anni Ottanta e Novanta del XX secolo. Inoltre, gli indici piuttosto deludenti furono il risultato dell’uscita della Germania, in concomitanza con altre economie avanzate, dalle tendenze globalizzatrici del XIX secolo. La prima guerra mondiale frenò potentemente il movimento internazionale di merci e capitali. Gli enormi costi della guerra e gli altrettanto enormi debiti accumulati per sostenerli lasciarono solamente gli Stati Uniti nella posizione vantaggiosa di creditore. Le diatribe postbelliche riguardanti le relazioni tra debito interalleato e riparazioni ridussero ulteriormente il flusso di capitali e si acquietarono solamente tra il 1924 e il 1929. Dopo di che, la crisi economica mondiale ebbe un effetto distruttivo sul capitale, e quello che si rese nuovamente disponibile operò pressoché esclusivamente sul mercato nazionale. La Germania dovette sempre importare quantità notevoli di derrate alimentari e di materie prime. Per pagare queste importazioni e finanziare lo sviluppo economico, necessitava di valuta e di capitali esteri; come di mercati esteri sui quali collocare i propri prodotti. Non pochi tedeschi invocarono disinvoltamente una maggior chiusura nell’ambito ristretto dell’economia nazionale, senza rendersi conto che, sul lungo periodo, una ricetta del genere si sarebbe rivelata contraria agli interessi della Germania.
L’economia tedesca si modernizzò nel contesto di una stagnazione, almeno in termini relativi. La percentuale di popolazione impegnata nell’industria continuò a crescere raggiungendo un culmine statistico intorno alla metà degli anni Venti. Le donne, soprattutto giovani, abbandonarono le fattorie alla ricerca della maggiore indipendenza offerta dalla città e dal lavoro in fabbrica. Si sprecavano i commenti degli osservatori sulla crescita esponenziale della “nuova classe media”, sulle legioni di impiegati negli uffici statali e nell’industria; nelle ampie superfici espositive dei grandi magazzini; nei laboratori degli ospedali e delle fabbriche; negli istituti di ricerca. I figli del boom demografico degli anni intorno al 1900 si contendevano posti di lavoro limitati di numero, quando non inesistenti, nella burocrazia statale. Ingegneri e imprenditori parlavano e scrivevano di razionalizzazione e di tecniche produttive semplificate in grado di accrescere la produzione e ridurre il numero dei lavoratori. E arrivò l’era del consumo di massa. Grandi magazzini abilmente progettati esibivano con arte enormi quantità di merci, mentre i pubblicitari lusingavano i tedeschi con un mondo di sogno fatto di prosperità e ultima moda.
L’economia di Weimar era, dunque, un fascio di conflitti e di contraddizioni. Al pari di quella politica, la storia economica di Weimar si lascia facilmente dividere, per quanto in maniera sommaria, in tre fasi. La prima, 1918-23, fu l’era dell’inflazione; la seconda, 1924-29, della razionalizzazione; la terza, 1929-33, della depressione economica. L’inflazione aveva avuto inizio già prima, durante la guerra, allorché il governo ricorse al prestito per finanziare le enormi spese belliche. I tedeschi acquistarono obbligazioni di Stato con la promessa di un’elevata redditività dell’investimento, e l’ovvia presunzione della vittoria militare. Furono indotti a credere che qualsiasi difficoltà sarebbe stata temporanea e ben presto seguita da un’era di prosperità senza precedenti con l’imposizione sull’intero continente della potenza politica ed economica della Germania. Non andò così e, alla fine della guerra, si trovarono a dover fare i conti con una moneta svalutata, con industrie pressoché interamente dipendenti dalle commesse militari, con grande penuria di beni di prima necessità e di materie prime indispensabili alla produzione. Milioni di reduci dal fronte dovettero essere reintegrati in qualche modo nella vita civile. I britannici mantennero il blocco navale fino all’estate del 1919, peggiorando la già difficile situazione della Germania».

Collapse of the Weimar Republic
The Hole in the Republic's Heart

One of the best discussions of German society during the flowering of the Republic comes from Alex de Jonge.  He relies heavily upon individual experiences

Berlin in the 1920s was a very special place, for its caba­rets, its theaters, for its musical, literary and artistic life. Because of the pale and colorless quality of official Wei­ mar politics, and because the traditional upper and middle classes had lost so much ground all moral authority, and indeed all talent flowed through exclusively cultural chan­nels. It was as if all energy was absorbed by culture and pleasure seeking, bike races and bordellos. Moreover, the contrast between Berlin West as an isolated and localized pleasure center and the profound poverty and human misery which surrounded it, from the revolution to the slump gave the city its particular edge and atmosphere. It had a bite to it, a sense of irony and frenzy, which was fostered by the carefree and cynical character of the Ber­liners themselves; this created a mood which made people behave "as if there were no tomorrow."

In the dying years of the republic, from 1928 onward, as conventional politics and politicians grew daily more impotent and the stock market erected a statue to "The Unknown Solvent." the edge grew keener still. There was an increasing sense of imminent collapse and the suspicion that there might be something nasty in the wood­ shed. The spirit of "mature Weimar" is a strange combina­tion of moods: extraordinary enlightenment and liberalism; extraordinary weakness; a great capacity for creative technology; a sinister willingness to search for and worship strange gods; and occasional flashes of perverted violence and vileness that are almost beyond description.

A German study of the twenties has a chapter entitled "Technik Technik über alles." It was indeed a period which saw very considerable achievements in both technology and pure science. Einstein worked and taught in Berlin, and the next generation of scientists included names such as Werner von Braun. Between 1919 and 1929 German scientists won seven Nobel prizes.

The German motor industry put names such as Mercedes, Opel, BMW firmly on the map. In 1928 Fritz von Opel's rocket-powered car clocked 195 km (117 mph) on the Avus, Berlin's motor-racing track. Germany was indeed motor mad:

The most dangerous side of the motor "craze" continues to be the subject of public discussion. The Deutsche Tageszeitung refers in indignant terms to an advertisement for a motorcycle which, it is claimed, with a little practice it can be ridden even up bad streets and round curves with the hands off the handlebars.

[…]

Führers apart, Germany was full of confidence men, gurus. charlatans, astrologers, alchemists and miracle workers of various kinds. Some were ordinary frauds: one of the best known cases is that of Max Klante, who persuaded the Berlin public that he could pick winners with almost monotonous regularity, since he had access to stable information. That some should have believed him is inevitable, but that the people of Berlin should have believed him on such a scale that he could buy a large villa in the suburbs and keep horses in training himself seems scarcely credible. His system was simple. He offered anyone investing with him a return of 600 percent a year, to be secured by his successful betting. He used modern publicity and public-relations techniques to advertise his service—which got off to a good start. When the early clients found they were indeed getting 600 percent, they told others and the Klante bandwagon started to roll. So quickly did the business grow that long after he was no longer bringing off betting coups at 6-1 a time, he was able to pay his old customers out of his new subscriptions. Inevitably the whole system collapsed and most people lost a lot of money. However, the fact remains that numerous people were prepared to believe (a) that someone would do them the favor of making their money multiply six times in a year, and (b) that it is possible to predict the outcome of a horse race.

Max Klante was a people's con man. The case of Fritz Haber is very different, and perhaps even stranger. Haber was a distinguished scientist. In his search for an artificial fertilizer, he invented the explosive which permitted Germany to continue fighting the war without the help of imported saltpeter. He also invented poison gas by another mistake. In the 1920s he devoted much time and effort to the attempt to extract gold from seawater, and enjoyed much official support for the project. When, in the course of his research, he discovered that he had misplaced a decimal point in his early calculations, he had a nervous breakdown.

Haber could not really be described as an alchemist, but Fritz Tausend actually made the serious claim that he could manufacture gold, and for some time he was taken perfectly seriously in official circles. Again it was a case of people believing what they want to believe. The government backed him in the hope that his techniques might solve the reparations problem. Ludendorff, too, gave him financial support. Eventually the "demonstra­tions" he laid on were seen to be deceptions and he went to prison in 1929, but not before he had been taken seriously by persons who ought to have known better.

More extreme claims still were made by the Austrian autodidact peasant Schappeller, who claimed to have invented a new source of energy. "Space Energy," which would transform life on earth, make its controller the lord of creation, provide infinitely cheap power and create diamonds out of stone, gold out of mud. He too won support in high places, sufficient to enable him to pur­chase the castle which dominated the village of his birth and carry out expensive restora­tions. Part of the support came from the ex-kaiser himself, who provided Schap­peller with large sums. After his protegé  was exposed as a charlatan, the ex-kaiser outlined his motives for sup­porting him. It was not, he said, that he had any ambition to rule the world: "He wished to liberate himself from the heavy burden of guilt which the collapse of Germany had inflicted upon him through his participation in an under­ taking which would render his old empire apt for social renewal.''

Occultism and clairvoyance also enjoyed a tremendous vogue at the time, sometimes with ludicrous results:

A case due to come before a Berlin court tomorrow arises from a spiritualistic seance in 1920, at which the medium announced that Ludwig Uhland (who died in 1862) would give a demonstration. A pencil was then removed from a closed satchel, and a few moments later the occupants of the dimly lit room found themselves, it is stated, in the possession of a poem entitled "Wiederkehr, " written on stained yellow paper, in handwriting resembling that of the poet and signed L. Uhland—1920. The poem is said to have been accepted as authentic by two hundred experts.

Those present at the seance bound themselves to silence, but one of them, an author, has now begun proceedings against the medium for the restitution of the manuscript, which, he states, was originally delivered into his hands.

The judge reserved his decision, and refused to allow the spiritualists to give the evidence of dead people through mediums.

Erich Jan Hanussen was one of the most popular occult­ists and clairvoyants of the early 1930s. He was a char­latan with a good mind-reading act and considerable hypnotic powers. A member of fashionable Berlin, he used to give public demonstrations of hypnotism in nightclubs; he was also protegé  of Count Helldorf, a senior Nazi who later became Berlin's chief of police. After the Nazis came to power, he became their magician and astrologer until it emerged that, far from being the Danish baron he purported to be, he was a German Jew. A few days after the discovery, he was found shot dead in a forest outside Berlin. However Hanussen lives—or at least his stage name does!  Today in Berlin there are posters advertising the fabulous occult and clairvoyant powers of one Erich Jan Hanussen.

Stranger than run-of-the-mill charlatanism was the case of a certain Weissenberg, a Berlin prophet regarded by many as a saint and a miracle worker. Weissenberg claimed to raise the dead—by means of cheese. He treated a small child with curds, and when it died maintained that it was not really dead: a liberal application of cheese to head and foot should restore it. The cheese was applied and time passed. After a week the body was forcibly removed, although the parents, trusting Weissenberg's judgment, maintained that the child was still alive and that the police had killed it by interrupting the treatment. Weissenberg went on to conduct religious meetings, attempting to raise the dead. His public was middle-aged, working class and gullible, and his meetings produced scenes of quite extra­ ordinary mass hysteria. He would begin them by asking for contributions for the community he had founded. New Jerusalem. Then Sister Grete Müller, one of his assistants, would enter into a trance. She spoke with the voice of "Old Bismarck," who would urge all present to subscribe to New Jerusalem. The crowd would begin to get hyster­ical, then Weissenberg would walk among them laying on hands and calming them. They would then sup­pose themselves to be historical persons from Wilhelm II's circle, and would all shout and scream to­gether. Despite the fact that Weissenberg went to prison, his sect grew and grew and, of course, considered him a martyr.

It was a time when Germany was literally full of persons describing themselves as spiritual leaders. Some of them were noble, holy and rather remarkable men. R. Olday describes such a guru, "The Old Man," who preached a gospel of peace in the Hamburg slums and commanded a considerable following. Others were more exotic. Indeed the most exotic false prophet of them all was the utterly remarkable Muck Lamberty, who spread something akin to a medieval religious hysteria wherever he went. Lead­ing a "New Troupe" of dancers, singers, players and followers who had come to him from the Youth Move­ment he moved from town to town, preaching pantheism, ecstasy and the fire of the spirit. He and his band would literally dance into a town, and when they arrived every­ one would dance with them — policemen, mayor and fire brigade. Eyewitnesses confirm that when, for example. they entered Erfurt they got the whole town dancing and singing with them in a joyful condition of mass hysteria.
see also:
The German Unemployed:
Experiences and Consequences of Mass Unemployment from the Weimar Republic to the Third Reich


Richard John Evans, Dick Geary

Routledge, 1987 - pages 314

Summary:
How far was unemployment responsible for the triumph of the Third Reich? This collection of essays by British and German historians examines the collapse of democracy in Weimar Germany from the viewpoint of the social historian.

15 novembre 2012

Eine Fliege stirbt: Weltkrieg – Una mosca muore: guerra mondiale


Se qualcuno mi chiedesse qual è il catalogo dell’anno, non avrei dubbi: Musil en Bersntol. La grande esperienza della guerra in Valle dei Mòcheni, Bersntoler Kulturinstitut, Palai en Bersntol, Palù del Fersina, 2012.
(Musil en Bersntol. Das große Erlebnis des Krieges im Fersental)
Testo di commento bilingue (italiano-tedesco), chiara e dettagliata ricostruzione della biografia di Robert Musil nel periodo trascorso sul fronte austriaco del Trentino Alto-Adige tra il 1915-’17, presentazione di documenti e materiale fotografico, in parte inedito, in una cornice grafica di efficace eleganza.


Progetto/ Projekt:
Claudia Marchesoni

Testi di/ Texten von:
Alessandro Fontanari
Massimo Libardi

Abstracts:
pp. 44-45; 90-91

La conca, questo regno chiuso

Der Kessel, dieses abgeschlossene Reich

La descrizione fatta da Musil della Valle del Fersina risponde a un fine eminentemente letterario: dare al lettore quel profondo senso di stupore che colse lo scrittore durante la sua permanenza a Palù. Un vero e proprio senso di straniamento e di lontananza dal suo mondo, di distacco dalla civiltà e dallo spirito europeo. Al fine di creare l’immagine di un regno chiuso, lontano dal tempo, usa una serie di aggettivi che rimandano a mondi arcaici ed esotici: gli zoccoli intagliato delle donne di Palù somigliano a “piroghe” (Grigia 16); portano «calze blu e marrone come le giapponesi» (Grigia 16); «si sedevano […] in mezzo al sentiero tirando su le ginocchia come i negri» (Grigia 16). Una strana montanara ha “il cranio di un’azteca” (Grigia 44) e il villaggio sembra “un villaggio palafitticolo preistorico” (Grigia 12) mentre i suoi abitanti non sono nemmeno “buoni cristiani” (Grigia 14) e il suo sguardo è “tardivo”, “aveva percorso tutti i tempi” (Grigia 16).

[…]

Solo se si tiene conto del contrasto tra il mondo della Valle, attaccata alle sue tradizioni e circondata da una natura spesso ostile, e quello rutilante di Berlino, la più grande metropoli del mondo tedesco, dove si trova quando scoppia la guerra, si può comprendere la forte impressione che il ‘regno chiuso’ della Valle esercita su di lui.
Prima della guerra il paesaggio naturale conosciuto da Musil era soprattutto il mare, che ritornerà come uno dei luoghi dell’Altro Stato nella storia con la moglie del maggiore, e nel frammento “Il viaggio in paradiso” (USQ 1144). I richiami alla natura e all’alta montagna hanno quasi tutti origine dall’esperienza militare e in particolare nel periodo trascorso in alta Valsugana. Mare e montagna verranno a rappresentare nella geografia immaginale dello scrittore i luoghi dell’esperienza dell’Altro Stato : «Il mare in estate e l’alta montagna in autunno sono le grandi prove dell’anima» (USQ 1147), scriverà più tardi nell’Uomo senza qualità. Vi è infatti uno stretto rapporto tra il paesaggio e l’esperienza interiore: in Musil il paesaggio rappresenta una prova, una messa in gioco, un aspetto estremo.
Musils Beschreibung des Fersentals hat ein besonderes literarisches Ziel: Sie soll dem Leser jenes Gefühl des Staunens vermitteln, das der Schriftesteller während seines Aufenthaltes in Palai empfand. Ein wahres Gefühl der Verfremdung und Entfernung von seiner Welt, eine Löslösung von der Zivilisation und dem europäichen Geist. Um das Abbild eines “abgeschlossenen Reiches” zu scahffen, fernab der Zeit, benutzt Musil eine Reihe von Adjektieven, die auf archaische und exotische Welten verweisen: Die geschnitzten Holzschule der Palaier Frauen erinnern an “Einbäume” (Gesammelte Werke, VI 239); sie gingen in «blauen und brauen Strümpfen […] wie die Japanerinnen» (Gesammelte Werke, VI 239); «Wenn sie warten mussten, setzten sie sich nicht auf den Wegrand, sondern auf die Erde des Pfads und zogen die Knie hoch wie die Neger» (Gesammelte Werke, VI 239). Eine seltsame Bergbäuerin hatte, «einen Schädel wie eine Aztekin» (Gesammelte Werke, VI 250) und das Dorf erscheint ihm wie “ein vorweltliches Pfahldorf” (Gesammelte Werke, VI 236), während dessen Anwohner “keine guten Christen” sind (Gesammelte Werke, VI 237) und ihr “verspätet[er] Blick” “durch all die Zeiten gewandert” ist (Gesammelte Werke, VI 238 ).

[…]

Nur wenn man den Kontrast zwischen der Welt im Tal, die an ihren Traditionen festhält und von einer oft feindseligen Natur umgeben ist, und dem Glanz von Berlin bedenkt, der größten Stadt im deutschsprachigen Raum, wo Musil sich vor Kriegsausbruch befindet, kann man den starken Eindruck verstehen, den das “abgeschlossene Reich” des Tals auf ihn ausübt.
Vor dem Krieg war die Musil am ehesten vertraute Naturlandschaft das Meer, das als einer der Orte des “anderen Zustands” in der Geschichte mit der Frau des Majors und in dem Fragment “Die Reise ins Paradies” (Gesammelte Werke, V 1651) wiederzufinden ist. Die Reize der Natur und des Hochgebirges sind fast alle auf Musils Militärzeit zurückzuführen und insobesondere auf den Aufenthalt in der hohen Valsugana. Meer und Berg werden in der imaginären Geographie des Schriftestellers zu Orten des “andern Zustand”. «Das Meer im Sommer und das Hochgebirge im Herbst sind die zwei schweren Prüfungen der Seele» (Gesammelte Werke, V 1655), schrieb er später im Mann ohne Eigenschaften. Es besteht tatsächlich ein enger Zusammenhang zwischen der Landschaft und dem inneren Erlebnis: für Musil stellt die Landschaft eine Probe, ein Wagnis, etwas Extremes dar.

Eine Fliege stirbt: Weltkrieg Una mosca muore: “guerra mondiale” 
La mosca caduta dalla carta moschicida che muore sola e nell’indifferenza, è una cruda e forte immagine della morte dell’uomo in guerra – una morte abituale e insignificante, un numero statistico – quella guerra di trincea e di massacri che Musil stesso sperimenterà sul fronte dell’Isonzo nel novembre 1915.
Nel passo dei Diari compare un legame esplicito: «Una mosca muore: guerra mondiale» (Grigia 53). Un identico schizzo narrativo si trova nelle pagine del diario romano del 1913 con il titolo La carta moschicida Tanglefoot. Dopo Grigia sarà ripreso in Pagine postume pubblicate in vita: in quest’ultima versione, elaborata dopo la guerra, le mosche morenti sembrano uomini feriti e caduti che cercano invano di rialzarsi e che si trascinano in agonia su di un campo di battaglia.
La mosca che muore dopo essere stata catturata dalla carta moschicida è anche l’uomo medio imprigionato dalla civiltà europea come un pezzo intercambiabile di un meccanismo che lo sovrasta e di cui è vittima inconsapevole. Nell’Uomo senza qualità, riflette su come gli uomini si ritrovino nella maturità imprigionati in un ruolo e in un’esistenza ben diversi da ciò che avevano immaginato in gioventù, «quando la vita si stendeva loro dinanzi come un mattino senza fine, colmo di possibilità e di nulla» (USQ 124). E riprende l’immagine della mosca nella carta moschicida: «qualcosa ha agito nei loro confronti come la carta moschicida nei confronti d’una mosca; qui ha imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, e a poco a poco li ha avviluppati, finché sono sepolti in un involucro spesso che corrisponde solo vagamente alla loro forma originale» (USQ 124).
Infine la mosca che muore con un gesto così umano di vittima sacrificale, «quando la morte sopravvenne, la morente giunse le sue sei zampette strettamente e le tenne così, in alto» (Grigia 26-27), può alludere alla stessa prossima morte di Homo, una morte solitaria, nel silenzio e nell’abbandono.
La domanda che Homo mormora piano tra sé, prima di gettare la mosca morta in faccia al maggiore – «uccidere, e pur sempre avvertire Dio; avvertire Dio e tuttavia uccidere?» (Grigia 27) – è la constatazione della radicale contraddittorietà dei valori su cui si fonda la civiltà europea che chiede all’individuo di credere in Dio e contemporaneamente, nella guerra, di uccidere. Inoltre è ancora un riferimento a ciò che può emergere in una situazione eccezionale come la guerra: lo stesso uomo può diventare sia una bestia, sia un eroe.
Die von dem Fliegenpapier herunter gefallene Fliege, die einsam in der allgemeinen Gleichgültigkeit stirbt, ist ein grausames und starkes Abbild des Todes eines Mannes im Krieg – ein gewohnheitsmäßiger und unbedeutender Tod, eine Zahl in der Statistik – in diesem Krieg voll Schützengräben und Massakern, den Musil selbst an der Isonzo-Front im November 1915 erlebt.
Ein ähnlicher Erzählungsentwurf findet sich in seinem römischen Tagebuch aus dem Jahre 1913 mit dem Titel Das Fliegenpapier Tanglefoot.
Nach Grigia wird der Vorfall nochmals im Nachlass zu Lebzeiten aufgegriffen: in dieser lette, nach dem Krieg ausgearbeiteten Version, erinnern die sterbenden Fliegen an verwundete und gefallene Männer, die verzweifelt versuchen sich aufzurichten und die sich in Agonie auf einem Schlachtfeld daher schleppen.
Die auf einem Fliegenpapier sterbende Fliege ist auch ein Abbild des Durchschnittsmenschen, der von der europäischen Zivilisation gefangen ist wie ein austauschbares Teil eines Mechanismus, der ihn beherrscht und dessen unbewusstes Opfer er ist. Im Mann ohne Eigenschaften denkt Musil über Männer nach, die in ihrer Reife in einer Rolle und in einer Existenz gefangen sind, die deutlich abweichen von denen, die sie sich in ihrer Jugend vorgestellt hatten als «das Leben noch wie ein unerschöpflicher Morgen von ihnen, nach allen Seiten voll von Möglichkeit und Nichts» (Gesammelte Werke, I 131). Wiederum greift er das Bild der auf dem Fliegenpapier sterbenden Fliege auf: «Es ist etwas mit ihnen umgegangen wie ein Fliegpapier mit einer Fliege; es hat sie da an einem Härchen, dort in ihrer Bewegung festgehalten und hat sie allmählich eingewickelt, bis sie in einem dicken Überzug begraben liegen, der ihrer ursprünglischen Form nur ganz enfernt entspricht». (Gesammelte Werke, I 131).
Schließlich könnte die Fliege, die mit einer so menschlichen Geste wie ein Opfer stirbt («Als aber der Tod kam, faltete die Sterbende ihre sechs Beinchen ganz spitz zusammen und hielt sie so in die Höhe», Gesammelte Werke, VI 245), eine Anspielung auf Homos zigene bevorstehenden Tod sein, einem einsamen Tod, in Stille und Verlassenheit. Die Frage, die sich Homo leise stellt, bevor er die tote Fliege dem Major ins Gesicht wirft – «Töten, und auch Gott spüren; Gott spüren, und doch töten?» (Gesammelte Werke, VI 245) – ist eine Feststellung der radikalen Widersprüchlichkeit der Werte, auf denen die europäische Zivilisation basiert und die von dem Individuum verlangt, an Gott zu glauben und gleichzeitig im Krieg zu töten: Darüber hinaus ist sie auch ein Verweis auf das, was in einer Ausnahmesituation wie dem Krieg zum Vorschein kommen kann: Der Mensch selbst kann sowohl eine Bestie als auch ein Held werden.

Martha Heimann

 Grazie all’istituto dei Mòcheni, nella persona di Leo Toller
«Sulla storia militare, economica e diplomatica del periodo [la prima guerra mondiale] disponiamo di intere biblioteche; minore attenzione è stata riservata, invece, ai modi in cui gli europei cercarono di comprendere e quindi di superare la catastrofe prodotta dalla guerra. I tanti luoghi della memoria  e del lutto, sia pubblici sia privati, creati sulla scia del conflitto, non sono mai stati oggetto di un’analisi comparata. Ed è proprio a questi aspetti che vogliamo rivolgere la nostra attenzione. La memoria fa parte integrante del paesaggio».

Jay Winter

Robert Musil, DAS FLIEGENPAPIER

Das Fliegenpapier Tangle-foot ist ungefähr sechsunddreißig Zentimeter lang und einundzwanzig Zentimeter breit; es ist mit einem gelben, vergifteten Leim bestrichen und kommt aus Kanada. Wenn sich eine Fliege darauf niederläßt - nicht besonders gierig, mehr aus Konvention, weil schon so viele andere da sind - klebt sie zuerst nur mit den äußersten, umgebogenen Gliedern aller ihrer Beinchen fest. Eine ganz leise, befremdliche Empfindung, wie wenn wir im Dunkel gingen und mit nackten Sohlen auf etwas träten, das noch nichts ist als ein weicher, warmer, unübersichtlicher Widerstand und schon etwas, in das allmählich das grauenhaft Menschliche hineinflutet, das Erkanntwerden als eine Hand, die da irgendwie liegt und uns mit fünf immer deutlicher werdenden Fingern festhält. Dann stehen sie alle forciert aufrecht, wie Tabiker, die sich nichts anmerken lassen wollen, oder wie klapprige alte Militärs (und ein wenig o-beinig, wie wenn man auf einem scharfen Grat steht). Sie geben sich Haltung und sammeln Kraft und Überlegung. Nach wenigen Sekunden sind sie entschlossen und beginnen, was sie vermögen, zu schwirren und sich abzuheben. Sie führen diese wütende Handlung so lange durch, bis die Erschöpfung sie zum Einhalten zwingt.
Es folgt eine Atempause und ein neuer Versuch. Aber die Intervalle werden immer länger. Sie stehen da, und ich fühle, wie ratlos sie sind. Von unten steigen verwirrende Dünste auf. Wie ein kleiner Hammer tastet ihre Zunge heraus. Ihr Kopf ist braun und haarig, wie aus einer Kokosnuß gemacht; wie menschenähnliche Negeridole. Sie biegen sich vor und zurück auf ihren festgeschlungenen Beinchen, beugen sich in den Knien und stemmen sich empor, wie Menschen es machen, die auf alle Weise versuchen, eine zu schwere Last zu bewegen; tragischer als Arbeiter es tun, wahrer im sportlichen Ausdruck der äußersten Anstrengung als Laokoon. Und dann kommt der immer gleich seltsame Augenblick, wo das Bedürfnis einer gegenwärtigen Sekunde über alle mächtigen Dauergefühle des Daseins siegt. Es ist der Augenblick, wo ein Kletterer wegen des Schmerzes in den Fingern freiwillig den Griff der Hand öffnet, wo ein Verirrter im Schnee sich hinlegt wie ein Kind, wo ein Verfolgter mit brennenden Flanken stehen bleibt. Sie halten sich nicht mehr mit aller Kraft ab von unten, sie sinken ein wenig ein und sind in diesem Augenblick ganz menschlich. Sofort werden sie an einer neuen Stelle gefaßt, höher oben am Bein oder hinten am Leib oder am Ende eines Flügels.
Wenn sie die seelische Erschöpfung überwunden haben und nach einer kleinen Welle den Kampf um ihr Leben wieder aufnehmen, sind sie bereits in einer ungünstigen Lage fixiert, und ihre Bewegungen werden unnatürlich. Dann liegen sie mit gestreckten Hinterbeinen auf den Ellbogen gestemmt und suchen sich zu heben. Oder sie sitzen auf der Erde, aufgebäumt, mit ausgestreckten Armen, wie Frauen, die vergeblich ihre Hände aus den Fäusten eines Mannes winden wollen. Oder sie liegen auf dem Bauch, mit Kopf und Armen voraus, wie im Lauf gefallen, und halten nur noch das Gesicht hoch. Immer aber ist der Feind bloß passiv und gewinnt bloß von ihren verzweifelten, verwirrten Augenblicken. Ein Nichts, ein Es zieht sie hinein. So langsam, daß man dem kaum zu folgen vermag, und meist mit einer jähen Beschleunigung am Ende, wenn der letzte innere Zusammenbruch über sie kommt. Sie lassen sich dann plötzlich fallen, nach vorne aufs Gesicht, über die Beine weg; oder seitlich, alle Beine von sich gestreckt; oft auch auf die Seite, mit den Beinen rückwärts rudernd. So liegen sie da. Wie gestürzte Aeroplane, die mit einem Flügel in die Luft ragen. Oder wie krepierte Pferde. Oder mit unendlichen Gebärden der Verzweiflung. Oder wie Schläfer. Noch am nächsten Tag wacht manchmal eine auf, tastet eine Weile mit einem Bein oder schwirrt mit dem Flügel. Manchmal geht solch eine Bewegung über das ganze Feld, dann sinken sie alle noch ein wenig tiefer in ihren Tod. Und nur an der Seite des Leibs, in der Gegend des Beinansatzes, haben sie irgend ein ganz kleines, flimmerndes Organ, das lebt noch lange. Es geht auf und zu, man kann es ohne Vergrößerungsglas nicht bezeichnen, es sieht wie ein winziges Menschenauge aus, das sich unaufhörlich öffnet und schließt.

La carta moschicida

La carta moschicida Tangle-foot è lunga all’incirca trentasei centimetri e larga ventuno; è spalmata di una materia viscosa tossica e gialla, e proviene dal Canada. Se una mosca vi si posa — non per avidità ma per conformismo, perché ve ne sono già attaccate tante altre— resta presa dapprima per l’estrema falange ricurva di tutte le sue zampette. Sensazione lieve, inquietante, come quella che si proverebbe camminando nel buio a piedi nudi, e inciampando all’improvviso in qualcosa che altro non è ancora se non una resistenza indefinibile, morbida e calda, in cui fluisca già a poco a poco l’orrore di essere umana, di rivelarsi una mano messa lì chi sa come per artigliarci con le sue cinque dita sempre più percepibili.
Poi le mosche si tendono tutte in uno sforzo massimo, come tabetici che vogliono nascondere il loro male o come vecchi militari tentennanti (le gambe un po’ arcuate, come quando si sta su una cresta aguzza ). Si danno un contegno, chiamano a raccolta facoltà ed energie. Di lì a pochi secondi la risoluzione è presa, e incominciano come possono a districarsi frullando le ali. Questa frenetica manovra continua sinché lo sfinimento le costringe a interrompersi. Segue una breve pausa e poi un nuovo tentativo. Ma gli intervalli si fanno sempre più lunghi. Stanno lì, e io sento il loro smarrimento. Dal basso salgono vapori che vanno alla testa. Allungano la lingua tastando tutt’intorno come un piccolo martello. Hanno il capo peloso e bruno, quasi ricavato da una noce di cocco: sembrano idoli negri in forma umana. Si piegano avanti e indietro sulle zampette invischiate, puntando le giunture e si irrigidiscono come chi tenta di smuovere ad ogni costo un carico troppo pesante: più tragiche degli operai nella loro fatica, più vere di Laocoonte nell’espressione sportiva dello sforzo estremo. E poi viene il momento, sempre ugualmente strano, in cui l’esigenza immediata di un attimo trionfa di tutti i potenti istinti di conservazione. E’ l’istante in cui lo scalatore lascia volontariamente l’appiglio perché gli dolgono le dita, l’uomo sperduto nella neve vi si abbandona come un bambino, il fuggiasco braccato si ferma con i lombi in fuoco. Le mosche non hanno più la forza di sollevarsi dal vischio, ricadono un poco e in quell’attimo sono interamente umane. Subito sono afferrate in un altro punto; più in alto sulla zampa, o dietro, sull’addome, o alla estremità di un ala.
Quando hanno superato l’esaurimento psichico e, dopo una breve tregua, riprendono la lotta per la vita, sono già in una posizione sfavorevole e i loro movimenti diventano sempre meno naturali. Allora irrigidiscono le zampe posteriori e appoggiandosi sui gomiti cercano di alzarsi. Oppure stanno riverse a terra, inarcando le braccia, come donne che invano si sforzano di strapparsi dalla presa di un uomo. Altre ancora giacciono sul ventre, teste e braccia protese, come cadute in piena corsa, soltanto la faccia è ancora levata. Ma il nemico resta sempre passivo e sfrutta semplicemente i loro attimi di smarrimento, di disperazione. E “quello”, è un nulla che le inghiotte. Così lentamente da essere appena percettibile, e per lo più con una improvvisa accelerazione verso la fine, quando sopraggiunge l’estremo tracollo interno. Allora si lasciano cadere bruscamente in avanti, sulla faccia, sulle zampe; o di fianco, con le membra annaspanti all’indietro. Così restano a giacere. Come aeroplani abbattuti, con un’ala protesa nell’aria. O come carogne di cavalli. O negli infiniti atteggiamenti della disperazione. O come dormienti. Ancora, l’indomani, accade che una si svegli, agiti una zampa, o batta un’ala. Qualche volta uno di questi movimenti si propaga per l’intero campo, poi affondano tutte un poco più giù nella loro morte. E solo da un lato del corpo, presso l’attaccatura della zampa, palpita un organo piccolissimo che vive ancora a lungo. Batte con regolarità – non lo si può vedere senza lente d’ingrandimento – simile a un minuscolo occhio umano che indefessamente si apre e si chiude.
Robert Musil, Pagine postume pubblicate in vita, Torino, Einaudi, 1970, trad. Anita Rho

6 novembre 2012

Buon compleanno, Signor Musil! - Alles Gute zum Geburtstag, Herr Musil!



Portrait of Robert Musil


Nachlass zu Lebzeiten (1936)

Pagine postume pubblicate in vita

Vorbemerkung
Nota introduttiva

«Hat sich der Dichter deutscher Nation nicht schon längst überlebt? Es sieht so aus, und genau genommen, hat es, so weit ich zurückzudenken vermag, immer so ausgesehn, und ist bloß seit einiger Zeit in einen entscheidenden Abschnitt getreten.»

«Il poeta di lingua tedesca non è già da lungo tempo sopravvissuto a se stesso? Così sembra, e a regola la cosa è sempre andata in questo modo, per quanto indietro possa risalire con la mente, e solo da qualche tempo è giunta a una fase decisiva»

(Traduzione/ Übersetzung – Claudia Ciardi)


Diari – Quaderno 31 – traduzione di Enrico De Angelis

Scene di strada: Alla sera sul Kurfürstendamm una grande confusione che si impone sordamente, ma non troppo forte. Le persone vengono strappate dalla loro via da un’onda che si propaga risalendo la strada e corrono (tanto più velocemente quanto più sono lontani?) in raggi a ventaglio.
È come un processo fisico.
Si vede quanto debole era il loro «legame con il campo».


Diari – Quaderno 35 – traduzione di Enrico De Angelis

Sono nato nel 1880, ho sessant’anni e scriviamo 1940. Mi pare quasi una coincidenza significativa. Forse qualcuno scoprirà che cosa significa questo. Si è praticata l’astrologia, la grafologia e altre cose con grande stupidità. Forse si sarà capaci di spiegare con una grande teoria anche la mia debolezza psicologica, che si mostra nella mia osservazione. Spiegazione di un’applicazione della mistica dei numeri.
Io stesso ho l’impressione che le cose vadano verso la fine.


Diari – Quaderno 21 – traduzione di Enrico De Angelis

Percorrere di sera la Währingerstrasse. [Strada che da Vienna porta al distretto di Währing]
Donne come fiori che nell’oscurità nuotano portate dalla corrente.
La sua attenzione viene fermata da una fanciulla che cammina sul marciapiedi dalla parte del muro, nella sua stessa direzione. Egli nota una inesprimibile pena nel movimento. Le membra si arrestano, l’andatura si confonde, le gambe vogliono alzarsi contemporaneamente oppure fermarsi contemporaneamente, vuole alzare il braccio che non deve, il braccio destro oscilla in maniera sbagliata, la spalla si torce per la tensione, la volontà soffre di uno sforzo indicibile nel dipanare questa confusione e il corpo, malato di sfinimento, vacilla contro il muro.
Prima di accorgersi di quelle stranezze aveva creduto a un improvviso malessere e voleva accorrere. Ma allora vide il dolce, bel volto della fanciulla.
In quell’attimo egli stesso venne attraversato da un ricordo che veniva da sogni dei quali in stato di veglia fino a quel momento non si era mai reso conto. Ma era il suo sogno; camminava così e all’improvviso non poteva muoversi per la contemporaneità del movimento delle membra, e spostava in avanti di pochissimo una gamba o piegava un dito solo con sforzi [indicibili] vani. Sapeva di sognarlo sempre. Ora il suo sogno gli era stato inviato qui.
Permette che l’aiuti? – chiese e fece scivolare il suo braccio sotto quello della malata. Tremava per paura di una scena isterica, devastante, di spiegazioni davanti a un assembramento di persone. Ma non successe niente. Il suo braccio venne accolto come una cosa naturale. Così gli anormali si riconoscono. – Io ho [spesso] sempre sognato di lei – disse lui – Dove posso condurla? Se non avesse saputo tutto anche lei, questa ridicola espressione avrebbe dovuto suscitare le sue obiezioni oppure una risposta altrettanto ridicola. Ma lei camminava in silenzio appoggiata al suo braccio, completamente sicura ora, e la fiducia del braccio di lei fluiva come un’unione nel braccio di lui. – Io non capisco niente di medicina – disse lui e si sentiva contento. – Non è così grave come sembra – rispose sottovoce la ragazza. – Io l’amo, naturalmente – disse lui…



Musil ist unser Hausheiliger
Von Susanne Beyer

Der Journalist Karl Corino, 60, über sein obsessives Verhältnis zum österreichischen Schriftsteller Robert Musil (1880 bis 1942)

SPIEGEL: Herr Corino, Sie haben 36 Jahre an einer Biografie über Robert Musil gearbeitet. Ihre Recherchen begannen 1966/67 mit der Katalogisierung des Nachlasses in Rom, erst im Mai dieses Jahres haben Sie Ihr 2000-Seiten-Werk abgeschlossen. Sind Sie von Musil besessen?

Corino: Ich fürchte schon. Es war eine Faszination von Anfang an.

SPIEGEL: Warum musste es ausgerechnet der sperrige Klassiker Musil sein?

Corino: Ich bin Bauernsohn aus Franken und hatte 1959 mein Schlüsselerlebnis: Da las ich eine Musil-Passage, in der er auf eine für mich verblüffend exakte Weise Rinder im Morgenlicht beschreibt: Die Rinder lagen "auf den Wiesen halb wach und halb schlafend. In mattweißen steinernen großen Formen lagen sie auf den eingezogenen Beinen, den Körper hinten etwas zur Seite hängend; sie blickten den Vorübergehenden nicht an, noch ihm nach, sondern hielten das Antlitz unbewegt dem erwarteten Licht entgegen?.

SPIEGEL: Musil gilt inzwischen als einer der wichtigsten Repräsentanten deutschsprachiger Literatur, kann aber mit der Popularität seines Zeitgenossen Thomas Mann nicht mithalten. Wollten Sie Musil seinem Konkurrenten gegenüber aufwerten?

Corino: Das Verhältnis zwischen Mann und Musil trägt in der Tat tragische Züge. Musil kam immer ein bisschen zu spät. Er war fünf Jahre jünger als Mann und hat sich zum Beispiel vom "Zauberberg? gehörig in seiner Arbeit verunsichern lassen. Ich habe die historische Ungerechtigkeit gegen Musil stark empfunden, das war sicherlich auch ein Impetus meiner Arbeit.

SPIEGEL: Der Kritiker Marcel Reich-Ranicki hat kürzlich Musils unvollendetes Hauptwerk "Der Mann ohne Eigenschaften? als misslungen bezeichnet und Musil selbst als gehässig. Wie haben Sie diesen Angriff auf das Objekt Ihrer Begierde verkraftet?

Corino: Ich habe mit Reich-Ranicki ein paarmal telefoniert, als er an dem Musil- Aufsatz saß, und ich merkte schon, dass er beratungsresistent ist. Aber ich kann ihm in seinem Urteil nicht zustimmen. Mich hat zum Beispiel Musils Bildlichkeit immer fasziniert: Wenn er Diotima mit einem "jungen Rind? vergleicht, das "die trockenen Gräser betrachtete, die es ausrupfte?, gefällt mir das - auch aus den eben genannten Gründen. Reich-Ranicki aber kann darin nur sprachliche Entgleisungen sehen. Er rügt auch das Nicht-Fertigwerden, das Sich-Verlaufen im Essayistischen, was ich immer als sehr modern empfunden habe.

SPIEGEL: Wenn ein Romancier eine Figur sterben lässt, kann er mitunter sehr leiden. Was empfanden Sie, als Sie Musil im vorletzten Kapitel ihrer Biografie in den Tod verabschieden mussten?

Corino: Ich kann Ihnen sagen, dass dieses Ereignis zumindest von meiner Frau herbeigewünscht wurde. Ich arbeitete größtenteils im Souterrain an dem Buch, und meine Frau trat manchmal auf den Treppenabsatz und rief herunter: "Ist er endlich tot?? Ich musste lange sagen: "Nein, er röchelt noch.?

SPIEGEL: Ihre Frau Elisabeth hat - wie auch Sie - Ihre Doktorarbeit über Musil geschrieben. Führen Sie eine Ehe zu dritt?

Corino: Wahrscheinlich. Ohne Musil hätten wir uns nie kennen gelernt, ohne ihn gäbe es also unsere Kinder und Enkel nicht. Er ist zu einer Art Hausheiligem geworden. Wir haben ihm jetzt in unserem Garten ein Denkmal errichtet. Musil selber hat ja kein Grab, seine Witwe verstreute seine Asche am Rande zweier Genfer Gärten. Und nun haben wir ihm eine Art Ruhestätte bereitet: einen Bronzeabguss seiner Totenmaske auf einer Steinplatte. Da ist er jetzt, zwischen Farnsträuchern, um ihn selber zu zitieren, "bescheiden zur Natur zurückgekehrt wie ein weggeworfener Schuh?. Interview: Susanne Beyer
DER SPIEGEL 41/2003


Gesammelte Werke 7 - hrsg. von Adolf Frisé

Carlo Salzani
Crisi e possibilità. Robert Musil e il tramonto dell’occidente
Peter Lang, Bern, 2010



From the book:

«Ora, la metropoli non va ad indicare solo la grande città e la sua vita da formicaio, non è solo il modello di vita proprio degli enormi agglomerati di asfalto, uomini e cemento; la metropoli è la modernità, esemplifica il modo di vita, dei rapporti sociali, umani, economici e di potere dell’età moderna, della tecnologizzata società di massa. È una società altamente razionalizzata e formalizzata, una macchina estremamente complessa in cui il movimento di ogni singolo componente, di ogni piccolo ingranaggio mette in moto il tutto con una kafkiana automaticità. […] L’esperimento utopico di Musil tenta proprio di dischiudere mete sconosciute a partire dalla radicale accettazione dell’alienazione della vita metropolitana, che include però in sé grandi possibilità di sviluppo.»

Salzani, pp. 80-83

«Il principio di ragion sufficiente elevava ogni evento ad un superiore “status” di necessità, dando un senso anche all’incomprensibile, alla brutale datità del male. Ma molti fattori finiscono per rivelare che l’accadere non ha una causa sufficiente. Si sgretola così l’affresco di una storia unitaria, lineare, univoca e necessaria.
A mettere in crisi definitivamente questa visione della necessità storica è soprattutto la guerra. La guerra è sempre portatrice di orrori difficilmente giustificabili anche dal pensiero dialettico. La prima guerra mondiale inoltre distrugge un mondo, porta alla dissoluzione una secolare potenza e tutte le sue certezze, e quello che ne rimane si agita freneticamente senza sapere che via imboccare.
L’individuo viene sbalzato dal suo involucro e lasciato privo della logica che lo confortava, ed anche il suo agire si rivela nullo: la prima guerra mondiale porta nel teatro della storia le masse, ma mostra contemporaneamente come l’evoluzione degli eventi tocchi solo marginalmente la vita individuale e Musil constata la mancata corrispondenza tra gli avvenimenti e l’uomo.»

Salzani, pp. 141-142

«Dichtung [poesia] è la forma dell’utopia, la latenza del possibile, l’apertura non ancora colmata e irrigidita da ciò che è, ma disponibile ad essere plasmata: “la poesia è la capacità di immaginare come l’uomo può essere, è l’essenza stessa del senso della possibilità: è profezia, utopia, saggismo, tentacolare tentativo di sperimentare in tutte le direzioni le virtualità della propria esistenza; è anzitutto poesia non scritta dell’esistenza umana, dice Musil […]. La poesia è […] la storiografia dell’uomo, l’ipotesi della ‘vita vera’ ”.»

Salzani, p. 238
Chi è Carlo Salzani
Carlo Salzani è Adjunct Research Associate presso il Centre for Comparative Literature and Cultural Studies della
Monash University (Australia), e Alexander von Humboldt Postdoctoral Research Fellow presso la Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn (Germania). Ha pubblicato Constellations of Reading: Walter Benjamin in Figures of Actuality (Oxford: Peter Lang 2009) e curato, con Barbara Dalle Pezze, Essays on Boredom and Modernity (Amsterdam: Rodopi, 2009).



Robert Musil Literatur Museum in Klagenfurt


4 novembre 2012

La crisi che precede la guerra - Die Krise vor dem Krieg

La crisi che precede la guerra
Die Krise vor dem Krieg

Il Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale e la Biblioteca Austriaca organizzano a Trento, mercoledì 7 novembre, alle ore 17,30, nella Sala degli affreschi della Biblioteca comunale (Via Roma 55), l’incontro-dibattito La crisi che precede la Grande guerra. Interviene Massimo Libardi. Introduce Fernando Orlandi.
Francisco Goya - I disastri della guerra

Con l’incontro-dibattito La crisi che precede la Grande guerra prende inizio il ciclo di dodici incontri “Narrare la storia. Il Novecento nella letteratura tedesca”, organizzato dal Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale con la collaborazione della Biblioteca Austriaca.

Con questa iniziativa si intende ripercorrere attraverso alcuni romanzi particolarmente significativi la storia del mondo germanofono nel corso del Novecento. Ogni incontro avrà al centro alcuni romanzi che fungeranno da stimolo per raccontare uno o più decenni di storia.


In questo primo incontro l’atmosfera spirituale e le fratture che precedono la Grande guerra verranno ricostruite a partire da tre opere: Le considerazioni di un impolitico (1918) e La montagna magica (1924) di Thomas Mann e L’uomo senza qualità (1930-1933) di Robert Musil.

Si tratta di un accostamento che può sembrare “anomalo”, poiché i due autori non si amavano e la loro scrittura era separata da una distanza abissale. Ma i due romanzi vivono di una (parziale) comune ispirazione: non solo entrambi finiscono con la decisione del protagonista di arruolarsi – in realtà per l’interminato Uomo senza qualità, si tratta di uno dei finali – ma entrambi ricostruiscono l’atmosfera spirituale della civiltà europea prima dello scoppio della guerra.

“La montagna incantata” – scriveva entusiasticamente Ervinio Pocar – “è un fedele, complesso, esauriente ritratto della civiltà occidentale dei primi decenni del Novecento e, nella sua incantata fusione di prosa e poesia, di vastità scientifica e di arte raffinata, è il libro, forse, più grandioso che sia stato scritto nella prima metà del secolo”. E Italo Calvino, nelle Lezioni americane lo definiva “il libro che possiamo considerare la più completa introduzione alla cultura del nostro secolo […]. Si può dire che dal mondo chiuso del sanatorio alpino si dipartano tutti i fili che saranno svolti dai maitres à penser del secolo: tutti i temi che ancor oggi continuano a nutrire le discussioni vi sono preannunciati e passati in rassegna”.

Nel caso dell’Uomo senza qualità è lo stesso autore ad affermare nei Diari: “La mobilitazione, che lacerò il mondo e il pensiero in maniera tale che fino a oggi non hanno potuto essere ricuciti, è anche la conclusione del romanzo. [...] Che ci fu la guerra, e non poteva non esserci è la somma di tutte le correnti, gli influssi e i movimenti contrastanti che illustro”.

Qui però finiscono le somiglianze, poiché l’apparato concettuale con cui avviene questa illustrazione presenta due strumentazioni concettuali del tutto diverse. La montagna magica infatti riprende le contrapposizioni tra Kultur e Zivilisation, tra Gemainschaft e Gesellschaft, tra il mondo che ha nell’illuminismo, nell’economia capitalistica, nella scienza e nell’individuo il suo fulcro, che si contrappone alla visione romantica della comunità e del legame con il suolo, che un Thomas Mann apertamente schierato a favore degli Imperi centrali sviluppa nelle Considerazioni di un impolitico. Solo che il Mann del 1924 è apertamente schierato a favore della Repubblica di Weimar, cosicché la contrapposizione rappresentata dall’italiano umanista ed enciclopedista Lodovico Settembrini, allievo di Giosuè Carducci e dal gesuita Leo Naphta, fonte di interminabili discussioni è in qualche modo addomesticata. Tuttavia ancora nel 1952, pochi anni prima di morire, Mann scriveva: “Non me la sono mai sentita di rompere davvero con le Considerazioni: esse sono un’opera di travaglio e di scandaglio faticoso e schietto di me stesso a cui devo essere grato già perché solo quella tribolazione ha reso possibile La montagna incantata”.

Per Musil la crisi dell’uomo è più radicale: non si tratta tanto dello scontro tra Kultur e Zivilisation, ma del crollo del nostro “abito metafisico”, come scriverà nei Diari. L’epoca non è riuscita a produrre un nuovo pensiero, adeguato alla realtà, non è riuscita la sintesi di mistica e ragione e ciò ha portato inevitabilmente alla guerra. In un saggio pubblicato sul Der Neue Merkur nel marzo 1921, dal titolo Spirito ed esperienza. Note per i lettori scampati al tramonto dell’Occidente, Robert Musil attacca ferocemente Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, che è uno dei libri su cui al contrario è costruita La montagna magica

Pur nella loro diversissima impostazione, i due romanzi costituiscono forse la chiave migliore per leggere le contraddizioni, le fratture, che hanno portato allo scoppio della guerra.


(di Massimo Libardi e Fernando Orlandi)


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