10 marzo 2013

Joseph Roth - Viaggio in Russia – Reise nach Russland


Sull’imborghesimento della rivoluzione russa


Francoforte sul Meno, gennaio 1927

«Signori,
questa sera mi sforzerò di dimostrarvi che la borghesia è immortale. La più crudele di tutte le rivoluzioni, la rivoluzione bolscevica, non è stata in grado di annientarla. E non basta: questa crudele rivoluzione bolscevica ha creato il proprio borghese. Voglio confessarvi che il punto interrogativo dopo il titolo della mia conferenza di oggi non stava a significare un mio dubbio sull’esistenza del borghese bolscevico, ma aveva lo scopo di risvegliare la vostra curiosità. Io non volevo dire, insomma: è mai possibile che esista un borghese bolscevico? Volevo dire invece: non è una battuta di spirito che si possa parlare di un borghese bolscevico?»


[…]


«Il marxismo riuscì a portare la rivoluzione in un popolo borghese, qual è ed era ancora di più il popolo tedesco negli anni in cui nasceva la socialdemocrazia. Da veterani che portano il cilindro nel genetliaco dell’imperatore è probabile che l’audacia di un testo come il Manifesto dei comunisti possa far nascere dei rivoluzionari. Ma da un autentico popolo di cavalieri, quale il popolo russo è sempre stato, il marxismo fa nascere, in senso estetico-letterario, dei borghesi. Chi non ha molta dimestichezza con la storia russa degli ultimi decenni è facilmente propenso a confondere i comunisti di oggi con gli attentatori audaci e realmente eroici che cominciarono a scuotere lo zarismo sin dagli ultimi decenni del XIX secolo e che fecero cadere zar e ministri. Eppure quei lanciatori di bombe non erano affatto marxisti, erano socialrivoluzionari, più odiati dai socialisti di quanto lo siano i conservatori borghesi. I comunisti più audaci, Trockij, Radek, Lenin, al confronto dei social rivoluzionari hanno un aspetto molto per bene, molto borghese. Essi, infatti, hanno seguito un principio secondo il quale la passione è dannosa, il temperamento irrilevante, l’entusiasmo sintomo di debolezza. Applicare questo principio significa fare violenza al popolo russo. Ironie della storia ce ne sono sempre state. Ma che la storia del mondo si riveli una beffa è qualcosa che si sperimenta di rado. Ebbene, questo è proprio un caso in cui la beffa della storia è palese. Questa teoria che dovrebbe liberare il proletariato, che ha come scopo la creazione dello Stato e dell’umanità senza classi, questa teoria, là dove viene applicata per la prima volta, fa di tutti gli uomini dei piccolo-borghesi. E per colmo di sfortuna, le sue prime prove le fa proprio in Russia, dove i piccolo-borghesi non sono mai esistiti. In Russia, appunto, il marxismo si presenta soltanto come una componente della civiltà borghese-europea. Anzi, sembra quasi che la civiltà borghese europea abbia affidato al marxismo il compito di farle da battistrada in Russia.
Non so se qualcuno di voi conosca la vecchia Russia. Chi è stato in Russia, anche solo una volta, ha visto quanto era grande la differenza fra la borghesia europea e quella russa. Il mercante russo ha una tradizione cavalleresco-aristocratica. In Russia furono in mercanti a conquistare e colonizzare la Siberia; essi uccidevano ancora con le loro mani gli orsi di cui vendevano le pellicce, erano cacciatori di animali e di uomini, e fondarono in Asia i primi insediamenti. Questa tradizione restò viva fino a pochi anni fa. Il mercante moscovita correva per le vie della città in licia, una carrozza elegante, la più veloce del mondo, e si faceva un punto d’onore di incitare il suo cavallo fino a farlo crollare; era un vero “signore”, nel senso feudale della parola. Secondo la teoria marxista, naturalmente, anche in Russia esistevano i borghesi, e cioè della persone che vivevano di lavoro improduttivo. Ma per mentalità e modo di vivere, per concezione del mondo e consuetudine, questi borghesi erano più aristocratici, per esempio, dei nostri Junker prussiani».


[…]


«Non si balla il charleston perché il mondo è capitalista. Si balla il charleston perché esso è una delle forme di espressione artistica o di espressione della socievolezza della nostra epoca. Un uomo non è piatto o banale solo perché guadagna tanti soldi, come non è profondo e intelligente perché sta vicino a una macchina. Fra il lavoratore e il datore di lavoro, che si fronteggiano con tanta ostilità, ci sono più somiglianze di quel che entrambi non sappiano. Avere in comune il presente è un legame più forte che avere in comune un modo di pensare, e il contemporaneo vivo mi è più vicino del compagno di partito morto. Perciò se il comunismo vuole spingere la Russia che rispetto all’Europa era in ritardo di cento anni, nel cuore del presente, esso non può fare altro che renderla borghese. Il presente, infatti, è borghese. La rivoluzione russa non è affatto una rivoluzione proletaria, come pensano i suoi rappresentanti. È una rivoluzione borghese. La Russia era un paese feudale. Ora comincia a diventare un paese urbano, un paese di cultura cittadina, un paese borghese».


[…]


«Credo che i comunisti stessi si ingannino sul reale atteggiamento della popolazione nei riguardi della loro ideologia. I comunisti che sono oggi al potere, infatti, già da un pezzo non sono più i raffinati dialettici di una volta. Sono dei buoni, coscienziosi, mediocri ottimisti e dogmatici. Altrettanto ingenua come l’idea che essi si fanno del borghese è l’idea che si fanno dell’efficacia della loro ideologia sui non proletari russi. Basta che andiate a vedere un film russo, non uno dei film che vengono esportati nei paesi dell’Europa occidentale, e che per lo più sono dei buoni film, ma uno dei tanti prodotti confezionati per il mercato interno, chiuso e duro d’orecchio, uno di quei film con il borghese cattivo, che porta sempre il cilindro e il pancione. Tiene in mano amorevolmente un orologio costosissimo, e il suo cuore nero è pieno di crudeltà verso il proletario. Tutto questo, del resto, non mi meraviglia affatto. Neppure i dirigenti più assennati del partito comunista, infatti, hanno mai visto da vicino un vero borghese. Certo, hanno abitato in alcune città dell’Europa occidentale, m nei quartieri proletari; non hanno mai avuto occasione, purtroppo, di vedere una casa borghese, e tute le volte che parlano dei borghesi si servono del goffo, piatto cliché che si trovano a disposizione: forse, nel migliore di casi, il borghese svizzero, così come lo ricordano da Zurigo, la località da loro prediletta come luogo d’esilio».


Sul Volga fino ad Astrachan


Frankfurter Zeitung, 5 ottobre 1926

«Il battello a vapore che percorre sul Volga il tratto da Nižnij-Novgorod ad Astrachan galleggia bianco e festoso nel porto. Fa pensare a una domenica. Un uomo scuote una piccola campana, inaspettatamente squillante. I facchini, con addosso soltanto dei pantaloni di maglia e la cinghia da carico, attraversano in fretta la sala di legno. A vederli sembrano dei lottatori. Davanti al botteghino sostano centinaia di persone. Sono le dieci di un limpido mattino. Soffia un vento sereno. È come quando arriva un nuovo circo fuori città».

[…]

«La quarta classe sta giù, molto in basso. I suoi passeggeri trascinano pesanti fagotti, ceste da poco prezzo, strumenti musicali e attrezzi agricoli. Tutte le nazionalità che abitano lungo il Volga e oltre, nella steppa e nel Caucaso, vi sono rappresentate: ciuvasci, ciuvani, zingari, ebrei, tedeschi, polacchi, russi, kazachi, chirghisi. Ci sono cattolici, ortodossi, musulmani, lamaisti, pagani, protestanti. Ci sono vecchi, padri, madri, ragazze, bambini. Ci sono piccoli agricoltori, artigiani poveri, musicanti girovaghi, corsari ciechi, venditori ambulanti, lustrascarpe adolescenti e bambini abbandonati, i besprizornye, che vivono di aria e di sventura. Uomini e donne dormono in cassetti di legno a due piani, gli uni sopra gli altri. Mangiano zucche, cercano pidocchi sulla testa dei bambini, allattano neonati, lavano pannolini, fanno bollire il tè e suonano la balalaika e l’armonica a bocca.
Di giorno questo spazio ristretto è umiliante, rumoroso e indegno. Di notte invece erra su di esso un senso di raccoglimento. La povertà che dorme ha nel suo aspetto qualcosa di sacro. Su tutti i visi è impresso il pathos autentico dell’ingenuità. Tutti i visi sono come porte aperte, attraverso le quali si vede nelle anime bianche, luminose».


[…]

«“Lo vede?” mi disse un americano sul battello. “Che cosa ha ottenuto la rivoluzione? I poveri si pigiano giù in basso e i ricchi giocano a sessantasei!”
“Ma è anche l’unica attività”, dissi io “alla quale possono dedicarsi senza alcuna preoccupazione! Il più povero lustrascarpe della quarta classe oggi è cosciente che potrebbe salire qui da noi se soltanto ne avesse voglia. I ricchi uomini della Nep hanno appunto paura che possa arrivare da un momento all’altro. ‘Alto’ e ‘bass’ sul nostro battello non sono più da un pezzo termini simbolici, sono termini puramente oggettivi. Forse un giorno ridiventeranno simbolici.”
“Lo ridiventeranno” disse l’americano.


Il cielo sul Volga è vicino, piatto e dipinto di nuvole immobili. Dalle due parti, dietro le rive, si vede fino a molto lontano, ogni albero che spunta, ogni uccello che si alza in volo, ogni animale che pascola. Un bosco qui fa l’effetto di una creazione artificiale. Tutto tende ad allargarsi e a disperdersi. Villaggi, città e popoli sono separati da grandi distanze. Si stagliano le fattorie, le capanne, le tende abitate da nomadi, ciascuna è circondata di solitudine. Le molte diverse tribù non si mescolano fra loro. Anche chi ha assunto stabile dimora resta un nomade per tutta la vita. Questa terra dà il senso della libertà, come da noi lo danno soltanto l’acqua e l’aria. Qui anche gli uccelli preferirebbero non volare se potessero spostarsi a piedi. L’uomo invece passa su questa distesa come su un cielo, veloce e senza meta, un uccello terrestre.
Il fiume è come il paese: ampio, infinitamente lungo (da Nižnij-Novgorod fino ad Astrachan ci sono più di duemila chilometri) e lentissimo. Solo dopo molto tempo spuntano lungo le sue rive le “colline del Volga”, come bassi dadi. Il lato interno, spoglio e roccioso, è rivolto verso il fiume. Sono qui soltanto per spezzare la monotonia; quando Dio le creò, era in vena di scherzare. Dietro di esse si estende di nuovo la pianura, davanti alla quale gli orizzonti arretrano sempre più lontano, fino alla steppa e oltre.
La steppa manda il suo vasto respiro sulle colline, sul fiume. Si sente il sapore amaro dell’infinito. Al cospetto delle alte montagne e del mare infinito ci si sente sperduti e minacciati. Di fronte alla vasta pianura l’uomo è sperduto e però si consola. Non è niente di più di un filo d’erba ma non sarà inghiottito: è come un bambino che si sveglia nelle prime ore di un mattino domenicale, quando tutti dormono ancora. È sperduto ma anche protetto nel silenzio sconfinato. Quando ronza una mosca, quando una pendola batte con suono soffocato, c’è in questi rumori la stessa tristezza consolante, perché ultraterrena e senza tempo che c’è in una vasta pianura».


[…]


«Una strada maestra collega il porto di Kazan’. La strada è un fiume, ieri è piovuto. In città gorgogliano stagni silenziosi. Raramente spuntano alla superficie avanzi di selciato. Le targhe delle vie e le insegne dei negozi sono schizzate di fango e illeggibili. Doppiamente illeggibili, del resto, perché in parte scritte nella vecchia grafia turco-tatara. Perciò i tatari preferiscono starsene seduti davanti ai negozi ed enumerare le loro merci a tutti coloro che passano. Sono commercianti avveduti, a quel che si dice. Sul mento portano un pizzo nero. Dopo la rivoluzione la vecchia tradizione popolare dell’analfabetismo è diminuita fra loro del venticinque per cento. Adesso molti sanno leggere e scrivere. Nelle librerie si trovano pubblicazioni in lingua tartara, gli strilloni gridano nomi di giornali tartari».


[…]


«Fra i tartari, come fra la maggior parte dei popoli musulmani della Russia, la religione più che una fede è una pratica consueta. La rivoluzione ha cancellato un’abitudine, più che soffocato un bisogno. I contadini poveri qui sono contenti, come lo sono in tutti i governatorati del Volga. I contadini ricchi, ai quali molto è stato portato via, sono scontenti qui come dovunque, come i tedeschi a Pokrovsk, come i contadini di Stalingrado e quelli di Saratov.
I villaggi sul Volga – con l’eccezione di quelli tedeschi – danno del resto al partito i giovani adepti più devoti. Nelle zone del Volga l’entusiasmo politico proviene più spesso dalla campagna che non dal proletariato cittadino. Molti di questi villaggi erano lontanissimi dalla civiltà. I ciuvasci, per esempio, sono “pagani” ancora oggi, di nascosto. Adorano idoli e offrono ad essi dei sacrifici. Per l’abitante ingenuo e primitivo di un villaggio sul Volga il comunismo si identifica col progresso».


[…]

«Le città lungo il Volga sono le più tristi che io abbia mai visto. Fanno pensare alle città francesi che sono state distrutte nella zona di guerra. Le loro case bruciarono nella guerra civile rossa; le macerie, poi, videro la fame bianca passere al galoppo lungo le strade.
Gli uomini morirono cento volte, mille volte. Mangiarono gatti, cani, corvi, topi e i bambini morti di fame. Si ferirono le mani a morsi per bere il proprio sangue. Rasparono la terra alla ricerca di vermi grassi e di calce bianca, che l’occhio scambiava per formaggio. Due ore dopo aver mangiato, morivano fra dolori atroci. Eppure queste città sono ancora vive! Eppure uomini e donne mercanteggiano e trasportano bagagli e vendono mele, tirano su i bambini e partoriscono! Sta già crescendo una generazione che non conosce l’orrore, stanno già sorgendo impalcature, falegnami e muratori sono già al lavoro per costruire nuove case.
Non mi meraviglio che queste città siano così belle solo dall’alto e da lontano; che a Samara un caprone mi abbia impedito di entrare in albergo; che a Stalingrado mi sia piovuto in camera un acquazzone; che i tovaglioli siano di carta da pacchi colorata. Se si potesse andare a spasso sui tetti, così belli, invece che sulle gobbe del selciato!»


I prodigi di Astrachan


Frankfurter Zeitung, 12 ottobre 1926


«Ad Astrachan c’è un piccolo parco, con un padiglione al centro e una rotonda in un altro. La sera si paga il biglietto e si va nel parco a sentire l’odore dei pesci. Dato che è buio, viene da pensare che i pesci siano appesi agli alberi. Le proiezioni cinematografiche si svolgono all’aperto e così pure i primitivi spettacoli di cabaret. Qualche volta le orchestrine dei cabaret suonano allegre canzoni dei tempi passati. Si beve birra e si mangiano i granchi rosa che mangiano poco. Non passa ora in cui non si senta il desiderio struggente di essere a Baku. Purtroppo il vapore fa servizio solo tre volte la settimana. Per poter pensare più intensamente al vapore, vado a piedi fino al porto. Dalla banchina numero 18 si potrà partire per Baku. Dopodomani. – Come è lontano dopodomani! – I calmucchi remano nelle barche, i chirghisi conducono cammelli in città tirandoli per la solita cavezza, i commercianti di caviale fanno chiasso nell’agenzia, i contadini ignari, in attesa del battello, se ne stanno accampati sull’erba, due giorni e due notti, gli zingari giocano a carte».


[…]


«La gente equipaggiata per Astrachan porta lunghi mantelli antipolvere col cappuccio, proprio come i cavalli. Nelle notte scarsamente illuminata si vedono passare degli spettri, tirati da cavalli spettrali. Nonostante tutto questo, ad Astrachan ci sono un istituto tecnico superiore, delle biblioteche, dei club e dei teatri, dei gelati sotto una lampada ad arco che dondola, frutta e marzapane dietro veli di garza che sembrano veli da sposa. Pregai Dio che fosse alleviato il flagello della polvere. Il giorno seguente Egli mandò una pioggia torrenziale. Il soffitto della mia camera d’albergo, che era stato viziato dalla polvere, dal vento e dalla siccità, atterrito crollò sul pavimento. Non avevo pregato che piovesse tanto. Tuoni e fulmini. La strada era irriconoscibile. Le carrozze avanzavano gemendo, affondando nel fango fino a mezza ruota, i cerchioni grondanti di grigi, pesanti, molli ammassi di mota. Gli spettri gettarono indietro i cappucci e aprirono degli strumenti umani e a me familiari».


[…]


«Senza questa pasticceria non avrei potuto lavorare; per scrivere, la materia prima più importante è il caffè. Le mosche, invece, sono superflue. Eppure erano sempre lì, mattino, mezzogiorno e sera. Le mosche, non i pesci, costituiscono il novantotto per cento della fauna di Astrachan. Non servono poprio a niente, non sono oggetto di traffici, nessuno vive di mosche; ma loro vivono di tutti. In fitti sciami neri ricoprono cibi, zucchero, vetri delle finestre, piatti di porcellana, avanzi, cespugli e alberi, pozzanghere e letamai, e perfino tovaglie del tutto spoglie, sulle quali un occhio umano non riesce a scorgere nutrimento di sorta. La minestra rovesciata che ha impregnato la tovaglia, anche quando è asciugata da un pezzo, le mosche riescono a succhiarla dalle molecole della stoffa da un cucchiaio. Sui camiciotti bianchi indossati qui dalla maggior parte degli uomini le mosche si posano a migliaia, sicure e trasognate, non volano via quando il loro ospite si muove, restano due ore sulle sue spalle, sono esseri senza nervi le mosche di Astrachan, hanno la calma dei grandi mammiferi, o forse dei gatti e dei loro nemici nel mondo degli insetti, i ragni…»


[…]


«La carta moschicida, che è stata inventata da un americano, e che io odiavo più di ogni altra benedizione della civiltà, mi appare ad Astrachan come un prodotto nobile e umanitario. Ma in tutta Astrachan non c’è una sola striscia di questa preziosa materia gialla. Nella pasticceria domando: come mai non avete della carta moschicida! La gente accampa dei pretesti e risponde: Ah, se lei avesse visto Astrachan prima della guerra, solo due mesi prima della rivoluzione! – È l’oste che lo dice, e anche il commerciante. Dare man forte alle mosche reazionarie è il loro modo di opporre resistenza, una resistenza passiva. Un giorno o l’altro questi animaletti divoreranno la grande Astrachan, col suo pesce e il suo caviale.
Alle mosche di Astrachan preferisco i mendicanti, che qui sono più numerosi che in qualsiasi altra città. Singhiozzando forte, cantando, gridando le loro pene, si aggirano lenti per le strade come seguendo il proprio cadavere, si riversano in tutte le birrerie, ricevono un copeco soltanto da me – e di questo copeco vivono! – Di tutti i prodigi di Astrachan è questo il più strabiliante…»

(Traduzione di Andrea Casalegno)




JOSEPH ROTH (1894-1939) was the great elegist of the cosmopolitan, tolerant and doomed Central European culture that flourished in the dying days of the Austro-Hungarian Empire. Born into a Jewish family in Galicia, on the eastern edge of the empire, he was a prolific political journalist and novelist. On Hitler's assumption of power, he was obliged to leave Germany and he died in poverty in Paris.


See also: Joseph Roth in Granta books





Panoptikum am Sonntag
Für Benno Reifenberg



Eines Tages – es war ein Sonntag – wich die Scheu, mit der ich oft an dem Musée Grevin vorbeigegangen war. Es regnete in Abständen. Die Wolken, die aus Schwefel zu sein schienen, strömten ein gelbes Licht aus. Am Nachmittag bekamen die sonntäglich gekleideten Menschen den Ausdruck abgekämpfter, feierlicher und vergeblich auferstandener Schatten. Es war, als ob der Sonntag, zu dem sie ausgezogen waren, ausgefallen sei. An seiner Stelle befand sich eine Art verregneter und trüber Lücke, die den verflossenen Samstag vom künftigen Montag trennte und in der die verlorenen Spaziergänger umherschwankten, geisterhaft und körperlich zugleich und alle wie aus Wachs. Mit ihnen verglichen waren die wächsernen Puppen im Musée Grevin aufrichtigere Imitationen. Das gelbe Licht der Lampen in den fensterlosen Räumen, die niemals den Tag gekannt hatten, vermischte sich so innig mit dem Dämmer, der aus den Winkeln kam, daß beide aus dem gleichen Stoff zu sein schienen und Hell und Dunkel Geschwister. Die Gestalten der Geschichte und die bescheinigte Authentizität ihrer Gesichter, Bratenröcke, Kostüme, Zylinder; die Schatten, die sie wie zum Beweis ihrer Lebendigkeit auf den Fußboden warfen; die wächserne Starrheit ihrer Stellungen; und schließlich die unheimliche Stummheit, die lebende Zeitgenossen und längst Verstorbene gleichmäßig ausströmten: das alles kam mir wie eine angenehmere Fortsetzung und Bestätigung jenes gelben Sonntags vor, den ich eben verlassen hatte. Manche Persönlichkeiten hielten den einen Fuß vorgestreckt, die Hose warf unter dem Knie ebenso lebenswahr unbeabsichtigte Falten wie über dem Hals das Kinn ein Doppelkinn, und hundert kleine Nachlässigkeiten des Schneiders und der Natur waren bemüht, selbst dem verstockten Zweifler die wahre Existenz der Figuren zu beweisen. Ja, der Zuschauer kam oft dazu, mit dem eigenen Wunsch die Absicht des Panoptikums zu unterstützen.

Auf den Gesichtern der lebendigen Besucher wieder lagerte ebenfalls eine Stummheit, die aus Ehrfurcht, Schrecken und Staunen bestand, wie ein matter Widerschein jener Figuren. Niemand wagte laut zu sprechen. Alle flüsterten oder murmelten, als befänden sie sich wirklich in der Nähe der bedeutenden oder furchtbaren Persönlichkeiten und als könnten sie durch einen stärkeren Laut die Puppen zu einem unwilligen Fluch veranlassen. Ein Geruch von lange ungelüfteten Kleidern schwebte um alle Denkmäler und machte sie noch realer. Gleichzeitig aber mit der Furcht, die sie einflößten, fühlte man eine Art Mitleid mit ihnen, den ewig eingeschlossenen, und empfand es fast als ein Unrecht, daß ihre Vorbilder, die noch lebten, in der schönen freien Luft und an den grünen Tischen der Weltgeschichte atmen und handeln durften. Es war, als stünde hier im Panoptikum der wahre Poincaré zum Beispiel und draußen führe irgendwo in einem Auto zu einem offiziellen Ereignis der nachgemachte. Denn alles Wesentliche und Kennzeichnende schien die wächserne Puppe dem lebendigen Vorbild abgelauscht und weggenommen zu haben, so daß dieses ohne seine stabilen Züge in der Welt herumlief. Und ebenso wie die Zeitgenossen der Erde, so schienen die toten Heroen dem Jenseits entwendet worden zu sein; und für die Dauer meines Aufenthalts im Panoptikum war es mir klar, daß sich in der Unterwelt nur die billigen Durchschnittsschatten aufhalten konnten, die für die Geschichte wie für das Musée Grevin überhaupt nicht von Bedeutung waren.

Im Sterbezimmer Napoleons auf St. Helena roch man das schwelende Licht, obwohl es von einer elektrischen Birne kam, und man erstarrte in Ehrfurcht vor dem doppelten Schweigen des Todes: dem metaphysischen und dem imitierten. Für die Ewigkeit festgehalten war die Ewigkeit selbst, und das Flügelrauschen des Todesengels hatte seine Flüchtigkeit verloren und war beständig geworden, eingefangen im Sterbezimmer. Die authentischen Gegenstände aus Napoleons Besitz, seine Taschenuhr zum Beispiel, die auf dem Nachttisch lag, strömten eine überzeugende Echtheit aus, wie Gewürze Düfte verbreiten. Jede kleinste Lücke zwischen den nachgemachten Tatsachen, in die etwa die Phantasie des Betrachters hätte schlüpfen können, war ausgefüllt mit einer nachgemachten Wahrscheinlichkeit zumindest. Also war die Wirklichkeit nicht nur imitiert, sondern sogar übertroffen. Es war eine Welt, in der jede körperliche Erscheinung der menschlichen Phantasie vorgriff, um sie überflüssig zu machen, und in der alles plastisch vorhanden zu sein schien, was man sich sonst mit geschlossenen Augen kaum in verschwimmenden Umrissen ausmalen darf. Die Schatten waren eben Körper geworden und warfen eigene Schatten.

Über allem lag eine makabre Stimmung. Aber sie entströmte nicht so sehr den dargestellten Katastrophen (wie etwa der Christenverfolgung in Rom und der unterirdischen Welt der Katakomben), sondern viel eher der unerbittlichen Körperlichkeit, in die alle Ausgeburten der Phantasie hineingesprungen waren, dieser wächsernen Härte, umgeben von historisch unanfechtbaren Requisiten und diesem legitimen Geschichtsunterricht, an dem nicht mehr gezweifelt werden konnte, einfach, weil er aus Wachs war und gar nicht vom Fleck zu rühren. Es war wie eine Begegnung mit okkulten Erscheinungen, obwohl alles Okkulte und der Vernunft schwer Zugängliche rationalistisch präpariert allen irdischen Sinnen aufgedrängt wurde. Man konnte Wunder mit körperlichen Augen sehen und war infolgedessen ein bißchen niedergedrückt und in Sorge, die liebe Erde zu verlieren, auf der man so gerne glaubend und zweifelnd herumwandert.

Nur in einer einzigen Abteilung – Palais de Mirages, im Märchenpalast also – war die Begegnung mit dem Wunderbaren nicht schrecklich, sondern heiter. In diesem Palast sind alle Wände und die Decke aus Spiegeln. In der Mitte stehen ein paar Säulen, deren Aufgabe es ist, nicht die Decke zu stützen, sondern sich selbst zu vervielfältigen. Es ist ein besonderes System drehbarer Spiegel, die ein unwahrscheinliches Getöse verursachen, sobald man sie in Bewegung bringt. Um das Getöse zu übertönen, veranstaltet ein Orgelmechanismus eine Opernmusik, die aus Porzellanhimmeln, Messingsphären und Stanniolplaneten zu kommen scheint. Eine Zeitlang ist es stockfinster. Eine Pause, die dazu dient, die erregten Sinne auf ein neues Märchen vorzubereiten, und allen Besuchern Gelegenheit gibt, die Körper ihrer vertrauten Begleiterinnen wie fremde Wunder im Finstern zu fühlen. Dann leuchtet es langsam auf, von hunderttausend Lampen und Ampeln, violett, gelb, grün, blau, rot, und man befindet sich im orientalischen Palast, der von durchsichtigen Säulen getragen wird. Vor einigen Minuten waren es noch dichtbelaubte Eichen und Ahornbäume, und man befand sich in einem deutsch-französischen Märchenwald mit Orgelgezwitscher. Bald dröhnt es wieder, und flugs stehen wir unter einem blauen Sternen- und Kometenzelt.

Erst in diesem Palast gelangten die Besucher aus der flüsternden Furcht in ihre natürliche Spektakelfreude. Denn sosehr auch hier das Unwahrscheinlichste wirklich geworden war, so blieb doch diese von vornherein zugestandene Märchenhaftigkeit ein Kinderspiel, verglichen mit den Wahrscheinlichkeiten und Wirklichkeiten der menschlichen Geschichte. Es war keineswegs merkwürdig, aus dem Wald in die Alhambra mit einem Schlag versetzt zu werden. Aber unmöglich schien die Kreuzigung Christi, der Tod Napoleons, die Ermordung Marats, das Zirkusspiel der Römer. Ja, selbst die zeitgenössischen Politiker, deren Leistungen erst in hundert Jahren die panoptikale Reife erlangt haben werden, wirkten schon so, wie sie dastanden, im Bratenrock und Zylinder, unmöglich und gespenstisch. Wie wenige von all den Besuchern wußten, daß sie vor sich selbst erschrocken waren und eigentlich noch in den Straßen hätten erschrecken müssen – – vor ihrem eigenen Spiegelbild in einem Schaufenster! Da gingen sie wieder herum, aus Wachs und aus Gips, mit allen Schrecknissen des Panoptikums in der eigenen Brust, und eines jeden Seele war eine Folterkammer. Es regnete immer noch, schief und strichweise, die gelben Wolken galoppierten über den Dächern, und tausend Regenschirme schwankten unheimlich über den Köpfen der Unheimlichen ...



Literaturhaus Wien



Joseph Roth - portrait

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