18 gennaio 2015

Intervista ai No Gronda


I No Gronda, comitato di cittadini ambientalisti costituitosi nel genovese per opporsi alla costruzione di un tratto di autostrada, denominato Gronda, estremamente invasivo per una città che ha già sopportato non pochi stravolgimenti della propria fisionomia originale, intervengono sul dissesto idrogeologico, rispondendo alle domande rivolte in precedenza al prof. Paolo Arduini dell’Università di Pisa e al Gruppo 183.
Leggerete di seguito, tra le altre riflessioni, a cosa si indirizza principalmente l’attività dei No Gronda e quanto la loro esperienza, maturata durante gli anni di opposizione al progetto del passante autostradale, abbia rafforzato una coscienza e una sensibilità nei confronti di certi problemi, che urge trovi diffusione in tutto il paese. Per ulteriori notizie sui presidi e le battaglie portate avanti dal gruppo siete invitati a visitare il sito web Dibattito pubblico – Coordinamento dei comitati anti Gronda di Genova.
La tutela dei cittadini è fatta di prevenzione, come ci spiegano molto bene gli amici che hanno partecipato alla stesura di questo contributo, e nel caso specifico ciò significa “cultura del territorio”. Senza acquisire questo concetto, che può sembrare quasi scontato, ma che di fatto non trova alcuna rispondenza nella pianificazione e realizzazione delle opere sul territorio nazionale, la conta di vittime e danni, lo spreco di risorse, l’incremento esponenziale delle criticità, continueranno a essere la nefasta conseguenza di gravi tare amministrative.
Per questo, coerentemente con la loro riflessione, la domanda sul grado di efficienza della macchina dei soccorsi, chiamata in causa a disastro avvenuto e spesso al centro di fitte polemiche, rimane senza risposta.




La tutela del territorio passa necessariamente per la consapevolezza dei cittadini. La comprensione dei problemi è il primo elemento su cui edificare una comunità solida, che sia in grado di mettere a punto strategie efficaci per risolvere le proprie criticità. Dovendo giudicare il grado di coscienza e impegno civile su questi temi in Italia, cosa minaccia principalmente lo sviluppo di tali aspetti e quali, invece, le conquiste che sono state fatte grazie al lavoro capillare e paziente di comitati e associazioni? 

La domanda potrebbe essere anche riformulata come: Da dove nasce l’esigenza dei cittadini di riunirsi in Comitati? 
Quando una comunità si rende conto che scelte prese altrove mettono a rischio il territorio e la salute dei cittadini, allora nasce la necessità di informarsi. Si inizia quasi per caso, si analizza il problema, le ricadute sul territorio, la reale necessità di quanto sta per essere realizzato. Fortunatamente, negli ultimi anni, internet ha fornito uno strumento di conoscenza straordinario, che consente ai cittadini di informarsi, analizzare i progetti, le leggi, le esperienze maturate altrove su problemi analoghi. È dunque possibile farsi un’opinione e diffondere le nozioni, alimentando la consapevolezza di una comunità, di una città, su uno specifico problema, ma anche portando alla ribalta nazionale certe delicate situazioni.

Il caso della Gronda è emblematico: l’amministrazione comunale ha istituito, nel 2009, un dibattito pubblico durato tre mesi, durante il quale l’intenzione finale doveva essere comunque quella di legittimare un tracciato e veicolarne la costruzione (infatti l'opzione zero - ossia la possibilità di arrivare ad una non costruzione dell'opera - non era contemplata, contrariamente all’esperienza francese del débat public alla quale ci si voleva ispirare). Il dibattito pubblico ha finito invece con lo spingere i cittadini ad informarsi, a scambiarsi idee ed opinioni e dati in merito all'opera, alimentando invece la consapevolezza che l’infrastruttura proposta fosse inutile e dannosa e, dunque, a coalizzarsi per contrastarne la realizzazione. Lo dimostra la relazione finale del dibattito pubblico, nel quale la Commissione ha scritto che «le riflessioni sviluppate attorno al problema della congestione del nodo di Genova hanno confermato che la Gronda non è il rimedio, ma uno dei possibili rimedi. Il merito dei sostenitori della “opzione zero” è stato quello di richiamare l’attenzione sullo sviluppo del trasporto su ferro e di opere stradali e di aver proposto politiche integrate per una mobilità “dolce”», senza arrivare, di fatto, ad una scelta di tracciato fra quelli proposti dall’amministrazione comunale.

Le conquiste di Comitati ed Associazioni sono state, dunque, l’aver contribuito a diffondere una consapevolezza sulle problematiche in gioco, ed aver fornito uno strumento (la collaborazione fra cittadini) che consenta loro di confrontarsi con le Istituzioni e cercare di avere una voce in capitolo. In questi anni, i Comitati No Gronda hanno continuato la lotta, collaborando con altri comitati, associazioni ed esperti  e partecipando attivamente all’iter istituzionale di Valutazione di Impatto Ambientale dell’opera, attraverso osservazioni puntuali ed un sempre maggior grado di conoscenza del progetto.

Ciò che minaccia lo sviluppo della diffusione della coscienza dei problemi, è sostanzialmente da indicare in tre fattori: 1) La mancanza di ascolto dei cittadini da parte delle istituzioni, spesso arroccate su posizioni trasversali o di partito; 2) L’influenza degli organi di stampa – spesso adagiati sulle posizioni lobbistiche – sull’opinione pubblica; 3) L’eccessiva durata, in Italia, delle procedure burocratiche che accompagnano la genesi e la realizzazione di un'opera; fatto che può –  alla lunga – portare uno scollamento ed un senso di impotenza fra i cittadini.

Non appena è iniziato l’autunno abbiamo vissuto un vero e proprio stato di calamità a causa del continuo susseguirsi delle alluvioni. La Liguria, il basso Piemonte, Parma, Carrara, la provincia di Roma. Ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. In un territorio a fortissimo rischio idrogeologico, tutela e prevenzione si sono rese latitanti per troppi anni. Quali considerazioni? 

Purtroppo, al di là di una assai carente prevenzione e controllo del territorio, quello che più preoccupa è l’assoluta assenza di una “Cultura del territorio” che ha caratterizzato la politica, soprattutto locale, degli ultimi decenni. Le carenze politiche si sono automaticamente riflesse poi sulla comunità che, priva di un indirizzo e di una informazione capillare, è cresciuta troppo spesso, nell’inconsapevolezza delle tematiche legate all’ambiente e alla sua tutela. In questa ottica il lavoro svolto da comitati e associazioni si è rivelato essere spesso l'unica fonte vera di informazione, ma non sufficiente a creare una cultura capillare che dovrebbe avere nella scuola un punto di riferimento.

La cementificazione è certamente uno dei tanti mali italiani. Il settore dell’edilizia che, fino a poco prima della recessione, figurava come uno dei volani economici della penisola, nasconde in realtà moltissime ombre e più di una responsabilità nell’attuale sfacelo del territorio. Che tipo di politiche bisognerebbe avere il coraggio di organizzare da subito?  

L’Italia, la cui fragilità territoriale è conclamata, dovrebbe investire le risorse nella messa in sicurezza del proprio territorio e nella riqualificazione dei centri urbani. Queste sono le uniche grandi opere che servirebbero al nostro paese. A livello nazionale, occorrerebbe un piano straordinario per la messa in sicurezza del territorio, avviando immediatamente le opere necessarie per la risoluzione delle emergenze più stringenti, realizzando quindi un sistema di monitoraggio e di gestione delle criticità del territorio a lungo termine. A livello regionale, occorrerebbe incentivare la rinascita della campagna: troppe situazioni di dissesto nascono dallo stato di incuria e di abbandono in cui versano le campagne ed i nostri monti. Inoltre, attraverso un meccanismo di sgravi, occorrerebbe promuovere la messa in sicurezza dei centri urbani e delle periferie cittadine, inibendo la possibilità di procedere a nuove operazioni di consumo di suolo, ma promuovendo, invece, la riqualificazione di quanto già esistente che, spesso, è fatiscente oppure versa in condizioni di abbandono.

I danni portati dal dissesto idrogeologico sono, sul piano economico, ingentissimi. Un esempio: 40 milioni di euro il costo dello scolmatore sul Bisagno a fronte di 60 milioni di danni stimati nell’alluvione del 9 ottobre. Si continuano a sostenere opere faraoniche quali la Gronda, per rimanere in territorio genovese, e la Tav. Perché, neppure a fronte dell’enorme difficoltà economica in cui ormai si dibatte il paese, e delle caratteristiche palesemente controproducenti di questi progetti, la classe dirigente non fa marcia indietro una volta per tutte? 

L’ostinazione con la quale molti dei nostri politici continuano a promuovere le grandi opere nasce dallo stesso sistema politico italiano, che vede i segretari di partito dettare le linee che gli altri membri devono seguire senza nemmeno preoccuparsi di verificare quanto loro impartito. Purtroppo questo si vede sia a livello locale sia a livello nazionale, dove troppo spesso chi deve decidere non è nemmeno informato sull'argomento di merito e segue le direttive di questo o quel segretario o presidente di regione. Senza poi contare quando ci sono poi di mezzo veri e propri interessi economici o legami con la criminalità organizzata, come dimostrato anche dalle recenti cronache.
Altro punto è l'assoluta mancanza di lungimiranza della classe politica, in particolare quella ligure che ha comandato negli ultimi decenni. Le scelte sul territorio sono sempre state dettate più da necessità di raccogliere immediati consensi elettorali, che da una attenta programmazione delle politiche in corso e future.

(Intervista di Claudia Ciardi)

13 gennaio 2015

Jason Lutes - Berlin. La città di fumo




Seconda parte del romanzo storico a fumetti di Lutes, ambientato nel periodo weimariano. L’autore si concentra sui fatti compresi tra giugno 1929 e settembre 1930. Mentre la crisi economica si acuisce, sale anche la tensione per le strade della città. Torme di disoccupati assediano le fabbriche, gli scontri tra “rossi” e “neri” sono all’ordine del giorno. Imprenditori sul lastrico si tolgono la vita, gente in fila ogni giorno davanti agli sportelli delle banche, i nazisti approfittano del caos per far girare i loro volantini contro i mali del capitalismo. Voci che si alzano, colluttazioni, nervi tesi. 
Due sono gli eventi che si susseguono a breve distanza e attorno a cui si consuma l’ultima parte del dramma tedesco. Il 3 ottobre 1929 muore a Berlino Gustav Stresemann, membro dell’assemblea costituente della repubblica di Weimar, attore fondamentale nella politica di riconciliazione tra Germania e resto d’Europa dopo la prima guerra mondiale. Stresemann seppe rivedere le sue posizioni con lungimiranza, ammettendo il totale fallimento della dottrina di espansione economica e coloniale del proprio paese. Cancelliere dall’agosto al novembre del ’23, annus horribilis dell’inflazione tedesca, fu a capo di una grande coalizione, comprendente anche i socialdemocratici, gettando in poche settimane le basi del risanamento finanziario e del ristabilimento della pace interna: innanzitutto con l’emissione della Rentenmark, quindi rovesciando i governi comunisti in Turingia e Sassonia, e bloccando il Putsch di Hitler a Monaco.
È tuttavia facile comprendere come la Germania navigasse in un fragile equilibrio e le forze contrarie che la trascinavano, lungi dall’essere state neutralizzate, seguitavano a operare in uno stato larvale, nell’attesa del momento propizio per riprendere vigore. Precocemente estromesso dal cancellierato, Stresemann portò avanti nei panni di ministro degli esteri la propria delicata missione di reinserimento del Reich nella comunità internazionale postbellica. In ciò fu infaticabile, non vi è storico che non gliene dia atto, e seppe interpretare alla perfezione il proprio ruolo di mediatore, ricucendo fra l’altro anche il rapporto con la Russia, sfociato nel cosiddetto “patto di Berlino” del ’26, che sanciva la neutralità in caso di aggressione. Insignito del premio Nobel per la pace nello stesso ’26, si tratta di una figura chiave, alla cui scomparsa Lutes dà nel suo lavoro un grande risalto, preoccupandosi di restituirne al lettore anche il contraccolpo emotivo. Lo sconforto dei moderati, e il panico che ne seguì, fanno parte della storia, e l’autore non manca di raccontarceli nel dettaglio. Come ho già avuto modo di dire, questo lavoro è saldamente poggiato su molte buone letture e analisi sociologiche che il narratore-illustratore ha condotto con scrupolo, attingendovi per dare credibilità e profondità ai suoi personaggi.
Ne è prova una sequenza molto interessante che riguarda la concitata riunione di redazione del giornale di Ossietzsky, «Die Weltbühne». Vi sono rappresentati tutti i punti di vista, dai radical chic versati nel socialismo di parole ma che non possono fare a meno di considerare gli operai sporchi e ignoranti, al pacifismo tout court che difende tutti e nessuno, al massimalismo incarnato da Kurt Tucholsky, che cerca di spronare i colleghi a esporsi con maggior coraggio e decisione contro la deriva di estrema destra. Tutto sta per andare a rotoli. L’inquietudine è per così dire il rumore di fondo che accompagna la narrazione di Lutes, fin dalle sue prime battute, e qui la ritroviamo nei contorni di un’ombra ormai lunghissima che occupa la scena. La nevrastenia di Severing ne è forse la manifestazione più rilevante: «Devo accettare che ciò che ha potere lo avrà per sempre? Che noncuranti del malcontento o persino della rivoluzione, gli stessi poteri vivranno sempre del popolo che, raggirato, li nutre? Come le malefiche stufe di non so quale storia dei Grimm, in cui la massa cieca infila i propri cuori ardenti per farseli risputare fuori consumati e neri come il fumo che è la causa della cecità. Ho un disperato bisogno di credere che le cose possano andare diversamente».
Questa frase ci dà anche il senso della metafora che dà il titolo al volume, chiamando in causa quel fumo che è sia il simbolo della fabbrica, quindi della fatica e dello sfruttamento dei lavoratori, sia ciò che annebbia la vista e ottunde le coscienze. 
Non che l’autore voglia far passare a tutti i costi una sua morale, ma qua e là si nota che non riesce a trattenersi dal puntare il dito contro l’indecisione di molti, soprattutto di coloro che controllavano i mezzi di informazione e che ricoprivano incarichi ufficiali, i quali avrebbero potuto far prendere una piega diversa alle cose. La Germania, sembra dirci Lutes, sbandò perché troppi, per indifferenza o viltà, non vollero schierarsi. La società non fu compatta, consegnandosi a una crisi da cui sarebbe uscita solo dopo una nuova guerra e la distruzione totale. In un tale clima il crollo della borsa di New York, avvenuto il 29 ottobre 1929, neppure un mese dopo la morte di Stresemann, divenne un innesco fatale.  
Volendo spendere ancora qualche parola sulla più che pregevole caratterizzazione dei protagonisti, confermo le impressioni che ho avuto alla lettura del primo volume. La storia tra Marthe e Severing pecca di qualche luogo comune di troppo; qui addirittura la separazione tra i due, anziché essere occasione di recupero per sgombrare il campo da forzature un po’ ingenue, apre la strada a una riflessione sull’omosessualità – un po’ per gioco un po’ per consolarsi Marthe inizia una relazione con un’amica conosciuta al corso d’arte – che doppia i toni alquanto superficiali già sperimentati nel rapporto con Severing. È come se a un certo momento si dovesse parlare di relazioni omosessuali, solo perché allora (e ancora) erano un fatto di costume in Germania, trascurando di dare alla cosa una maggiore e più problematica profondità. 
Nella fotografia del sottoproletariato, invece, Lutes scarica tutta l’incisività della sua matita. Mense affollate, prostituzione minorile, accattonaggio, caporalato. Il ritratto di Pavel, il Luftmensch, l’ebreo dell’est che vive rovistando nell’immondizia e rivendendo gli oggetti così recuperati all’antiquario Schwartz, incarnazione dell’ebreo integrato, è a mio avviso uno dei più completi e struggenti dell’intero racconto. Insieme a quello di Silvia, la giovane figlia dell’operaia uccisa per strada, ridotta a fare la vagabonda, aiutata dallo stesso Pavel e poi dagli Schwartz.
In tutto ciò le rappresaglie squadriste sono sempre più frequenti e violente. Le molte tavole disegnate da Lutes al riguardo hanno un indubbio spessore, rendendo con esattezza quella turbolenta atmosfera. Alla contrapposizione tra comunisti e SA (Sturm Abteilungen, squadre d'assalto) il disegnatore riserva una coralità visiva di grande impatto. Da una parte il corteo per i funerali di Horst Wessel, cui è intitolato l’inno del partito nazionalsocialista, dall’altra le celebrazioni per l’anniversario della strage del primo maggio del ’29, quando i poliziotti aprirono il fuoco sui manifestanti. Ognuno agita la sua rivoluzione.
Rifugiato tra i tavoli del Romanisches Café, Severing stigmatizza lo spolvero di retorica e la vacuità dei programmi che accompagnano le elezioni anticipate: «Il mondo di fuori è saturo di diversi tipi di mondi. In occasione delle elezioni anticipate la retorica si è ispessita, come il fumo di un edificio in fiamme trascinato a mezza altezza dal vento. L’aria è consumata dagli slogan scanditi ad alta voce e dalle canzoni che risuonano nei cortili. Il cielo è sorretto da muri di parole».
La vittoria dei nazionalsocialisti è alle porte.

(Di Claudia Ciardi)



Related links:

Berlin. Vol. II - Coconino Press - Catalogo

In questo blog: Jason Lutes - Berlin. Vol. I

The Quarterly Conversation - Berlin. City of Smoke


Berlin. City of Smoke - The Night River

6 gennaio 2015

Jimmy's Hall




Titolo: Jimmy's Hall
Regia: Ken Loach
Attori: Barry Ward, Andrew Scott, Simone Kirby, Jim Norton, Brian F. O'Byrne, Aisling Franciosi
Montaggio: Jonathan Morris
Musiche: George Fenton
Produzione: Sixteen Films, Element Pictures, Why Not Productions
Distribuzione: BIM
Paese: Francia, Gran Bretagna, Irlanda
Anno: 2014
Durata: 106 Min


Ken Loach è un regista che fa dell’impegno civile il suo tratto distintivo. Ama raccontare le conseguenze del disagio sociale nella vita dei singoli e nel respiro corale di una nazione. Ma il suo credo non si limita al cinema. Chiamato due anni fa al Torino film festival per ritirare un premio, vi rinunciò schierandosi con i dipendenti del Museo nazionale cinematografico pagati appena cinque euro lordi l’ora. Così poco da fornire la sponda al regista per un acceso intervento su precariato e sfruttamento dei lavoratori. Un caso, quello torinese, già portato all’attenzione dei tribunali di Torino e Milano ma al quale la solidarietà pubblicamente espressa da Loach contribuì a dare una grossa risonanza mediatica. La polemica si gonfiò in un men che non di dica, con la ditta appaltatrice sul piede di guerra che minacciò di sporgere querela contro il regista britannico, e il solito parterre di opinionisti e politici formati nel disprezzo della classe operaia che gridò subito all’opportunismo e alla strumentalizzazione da parte del maestro. Inutile soffermarsi sul fatto che chiunque abbia presente almeno un po’ la produzione di Loach, tutto potrà dire tranne che siamo di fronte a atteggiamenti strumentali. Lui, figlio di operai, ha sempre posto l’emarginazione al centro dei suoi racconti e su questo lacerante problema d’occidente, e ora globale, ha sviluppato una delle riflessioni più coerenti e incisive del cinema contemporaneo. Certo, non può non far storcere il naso a chi, convinto ancora che quello in cui viviamo sia il migliore dei sistemi possibili, su certe cose preferisce glissare. Quando Loach parla dell’Irlanda sbattendo in faccia alla madrepatria tutte le dolenti note dei suoi trascorsi coloniali, compie una doppia demistificazione: ci mostra a che prezzo il capitalismo si è aperto la propria strada nel mondo, e ci dice che senza una memoria storica che tenga conto di tutti i fattori e di tutte le vittime, seguiteremo a scrivere e insegnare una non verità. E l’inganno è alla base delle gravi crisi che stiamo attualmente fronteggiando.   
Dopo la Palma d’oro ricevuta a Cannes nel 2006 con Il vento che accarezza l’erba, è uscito in questi giorni nelle sale italiane un altro lavoro “irlandese”, stavolta costruito attorno alla biografia dell’attivista James Gralton, del quale peraltro ricorre il settantesimo anniversario dalla morte (29 dicembre 1945). Gralton, esiliato due volte, la seconda in via definitiva, non era né un sovversivo né bombarolo. Sorprende la persecuzione di cui è stato oggetto, conclusasi con un’accusa di clandestinità – Gralton era irlandese di nascita ma finì nell’elenco dei personaggi sgraditi al governo e alla chiesa cattolica del suo paese, colpito quindi da decreto di espulsione, senza possibilità di processo. Ma quali le ragioni di un simile accanimento? Parliamo infatti non di ciò che accade a Dublino o a Belfast ma di un piccolo distretto rurale, Leitrim, in apparenza fuori dai grandi giochi di potere. Si scopre però che la politica centrale rovescia le sue nevrosi anche in quest’angolo di campagna. I maggiorenti locali vessano i contadini, i problemi di spartizione della terra e gli sconfinamenti illegali sono all’ordine del giorno, in un contesto di disoccupazione galoppante, dove la chiesa cattolica anziché unire, schierandosi per strada con i più poveri, strizza l’occhio ai padroni. Dal genocidio di Cromwell, scientificamente pianificato ai fini della conquista territoriale e modello dei successivi stermini di massa, l’Irlanda non si è più ripresa. Prima colonia inglese, le è stato riservato un trattamento peggiore di tutte le altre: sfiancata dalla fame, ridotta in una desolante miseria, depredata della lingua – e su tale questione non mancherà di interrogarsi anche Joyce nel Ritratto dell’artista da giovane, che riconosce la sua incoerenza nel voler andare alle proprie radici culturali, usando tuttavia la lingua dei conquistatori, che ha scalzato via il gaelico – qui corre infatti una delle più profonde fratture identitarie del popolo irlandese. 
Loach si concentra sugli anni della guerra per l’indipendenza (1919-’21) finita col compromesso a favore del governo britannico, il che innescò un altro conflitto fratricida mai veramente sopito. Chi tra le file indipendentiste aveva sacrificato tutto, non poteva accettare di svendere se stesso e i compagni al trattato con gli inglesi. Questa guerra civile è stata violentissima, e i suoi strascichi durano tuttora. Ma facciamo un passo indietro. La trattativa con gli inglesi fu sul punto di essere approvata poco prima della guerra mondiale. Nel 1898 il giornalista Arthur Griffith aveva fondato il giornale «United Irishman» (successivamente «Sinn Féin», cioè «Noi stessi»); il gruppo tuttavia si scisse abbastanza precocemente dal momento che Griffith appoggiò l’unione col Regno Unito, mirando a strappare solo l’autogoverno (Home Rule). Nel gennaio del ’13 venne approvato il cosiddetto Home Rule Act, che decretava il processo di unione. Il trattato non poté tuttavia entrare in vigore a causa dello scoppio della Grande Guerra. Fu l’occasione per la Irish Republican Brotherhood, da sempre ostile all’unione con gli inglesi, di riorganizzare le proprie forze. L’insurrezione scoppiò nella Pasqua del 1916, a Dublino (è infatti definita “Insurrezione di Pasqua”). L’indomani circa sessanta volontari fecero irruzione negli uffici delle poste centrali, barricandosi all’interno. Venne proclamato il Governo Provvisorio della Repubblica Irlandese che resistette per cinque giorni all’assedio di ventimila soldati britannici. Ripreso il controllo della situazione, si istituirono nel mese di maggio corti marziali a raffica che decretarono la condanna a morte di quindici capi rivoluzionari. La gente comune, che sulle prime non aveva solidarizzato granché con gli insorti, cambiò radicalmente opinione dopo le condanne. Il poeta William Butler Yeats, da sempre impegnato nelle turbolente vicissitudini del proprio paese – tra parentesi questo fa la differenza tra uno che scrive i suoi versi, tanto per passare il tempo, e un grande – inviò subito un messaggio a Lady Gregory, sua mecenate e protettrice: «Cerco di scrivere un componimento sugli uomini giustiziati: una bellezza terribile è rinata». La poesia sulle esecuzioni di maggio è Easter 1916 e fa parte della raccolta The Wild Swans at Coole (I cigni selvatici a Coole), pubblicata nel ’17 e poi nel ’19. Alla fine della guerra «Sinn Féin» contava centomila membri e si impose alle elezioni politiche. Dette dunque vita a un’assemblea di delegati, il «Dáil Éireann», che proclamò il Governo Nazionale del Libero Stato Irlandese. Gli inglesi risposero con un massiccio stanziamento di forze di polizia regolare nell’Irlanda del Sud, reclutando un contingente speciale, il Black and Tans, tristemente noto per le atrocità commesse: pestaggi, torture, omicidi. La guerra per l’indipendentismo ebbe una battuta d’arresto nel ’21 con l’apertura dei negoziati che portarono alla conferenza di Londra dove l’Irish Free State venne riconosciuto come dominion del Commonwealth. Iniziò così la guerra tra favorevoli alla soluzione del conflitto, i cosiddetti Regulars dell’esercito governativo, e gli Irregulars, nucleo in cui confluirono i combattenti dell’Irish Republican Army (I.R.A). La posizione degli Irregulars si indebolì gradualmente fino al 23 agosto 1923 quando si dispose il cessate il fuoco. 
Tale è il contesto in cui si trovò ad agire anche Gralton che prese parte alla guerra contro gli inglesi, e fu coinvolto nella successiva guerra civile. La sua prima espulsione avvenne nel 1922. Il suo reato consisteva nell’aver costruito in paese una sala ricreativa, per tenere insieme la comunità nonostante lo sfaldamento che la minacciava nei giorni della ‘caccia alle streghe’, dove tutti sospettavano di tutti, e si andava avanti a colpi di spiate e arresti.  
Nella sua ricostruzione, Loach ci tiene a scendere nel dettaglio storico ma al contempo si sforza di farne una metafora fuori dal tempo, che richiami allo spettatore altre lotte. Il suo vuole essere un discorso ad ampio raggio, attraverso il quale il pubblico divenga cosciente del carattere vessatorio dei poteri, della loro indole corruttibile; il denaro, la salvaguardia cieca dei propri interessi, i metodi coercitivi e violenti sono alla radice di ogni ingiustizia sociale, a qualunque latitudine. Né tralascia di parlare di fascismo e nazismo, la cui ombra si allunga dietro e dentro la classe dominante occupata a difendere leggi scritte a propria immagine e somiglianza.
Anche in Jimmy’s Hall governatore, polizia e uomini di chiesa incarnano dunque quello spirito fascista nutrito di provocazioni e atti intimidatori che mira all’affermazione di un solo gruppo a scapito di tutti gli altri. James (Jimmy) Gralton di ritorno in Irlanda nel 1932, dopo dieci anni passati a vivere di espedienti a New York, pensa che il clima sia più disteso, invece realizza ben presto che a ogni angolo sono appostati i nemici di sempre. L’anziano parroco va casa per casa a registrare umori, dicerie, tessendo trame e attizzando antiche rivalità. È il personaggio che nel film raccoglie la maggior stigma. Solo perché non va in chiesa, taccia Gralton di militanza comunista. A denti stretti lo definisce un uomo onesto, un lavoratore senza invidie. Perciò ancor più pericoloso. In uno dei suoi discorsi pubblici, Jimmy dal canto suo dirà: «Ci fanno credere di essere un’unica nazione ma gli interessi dei proprietari sono diversi da quelli dei contadini, degli operai. Cosa volete che importi ai nostri governanti dei disoccupati, dei nostri lavoratori costretti a emigrare?»
Tutte le manovre del prete sono indirizzate alla chiusura della vecchia sala riaperta da Jimmy su richiesta dei ragazzi del paese. La gente lì si diverte e impara qualcosa. Si tengono circoli di lettura, si parla della poesia di Yeats, si fanno considerazioni sui testi – quante volte la scuola ci ha solo bacchettato, filze di voti in cui si è tradotta la distanza tra compagni, quante volte ha rinunciato a aiutarci? 
Dopo l’inutile ricerca di un accordo, più di uno dei sostenitori del progetto dichiara apertamente di essere stufo di attenersi al pragmatismo con la chiesa, perché «queste persone non vogliono partecipare, vogliono solo comandare». Dall’altra parte l’ostilità di parole non tarda a trasformarsi in conflitto vero e proprio. Una sera dei malintenzionati, coperti dal buio, cominciano a sparare mandando in frantumi i vetri della sala durante una festa. La tensione salirà ancora, culminando nell’attentato che ridurrà l’edificio a un mucchio di cenere. Viltà, la definisce il giovane sacerdote che prende le distanze dal suo superiore e dai politici di cui si circonda. Ormai non si può più tornare indietro. Quando Jimmy viene raggiunto dal mandato della polizia, non gli resta che tentare la sorte, dandosi alla macchia. Si aspetta che il caso susciti clamore nell’opinione pubblica, che i suoi riescano a dargli manforte, facendo proseliti. Ma è solo un sogno. Quando la madre, che da giovane portava i libri in giro per il paese e nelle scuole educando i ragazzi alla lettura, quando questa donna, autentica figura di matriarca irlandese dal cuore orgoglioso e fermo, legge in pubblico il suo discorso, chiede a chi la ascolta se sia un crimine aver insegnato al figlio a pensare. Questo infatti sconta Jimmy: essere un uomo in grado di valutare con giustezza gli altri uomini, mostrare senso critico, non temere di esprimere le proprie posizioni.    
La speranza nel film viene affidata ai giovani: il giovane prete, lo si è detto, che si fa portavoce di un cattolicesimo rinnovato, più tollerante meno compromesso col potere, e i figli, poveri o un po’ più fortunati, tutti pervasi da uno spirito solidale per provare a cambiare le cose. Questi giovani fanno molta tenerezza, perché nel film hanno la peggio.
Non salveranno la sala, non potranno impedire l’espulsione di Jimmy, dovranno sottostare alle leggi violente dei grandi. Però, alla fine, saranno loro a ereditare il mondo. Nelle loro mani le chiavi per aprire le porte sul futuro del paese.

(Di Claudia Ciardi)


Irruzione della polizia e pestaggio delle donne (una scena del film)

Related links:

La mia recensione di I cigni selvatici a Coole pubblicata su Lankelot.eu

Il gran rifiuto di Ken Loach a Torino su «Linkiesta» del 22 novembre 2012

La scheda di Jimmy's Hall su Bim distribuzione 



Ken Loach

2 gennaio 2015

Aesopica #1 - L'asino e l'ortolano


Animale condannato a faticare e servire, l’asino occupa un posto d’onore nelle narrazioni letterarie dall’antichità a oggi. Fonte di scherno e dileggio, perché docilmente prende le botte senza essere capace di ribellarsi, e per questa sua cieca sottomissione tacciato di stupidità, si presta a divenire l’ottimo referente dell’ignavia umana.
Riducendosi la storia, per sua gran parte, a un’epopea di sfruttatori e sfruttati, s’intuisce la longeva fortuna di tale allegoria. Assurto a emblema di ignoranza, in quanto incapace di pensare, non è tuttavia solo destinato al disprezzo ma, in qualche caso, ispira anche un senso di pietà per la rassegnata compostezza con cui affronta la sua disgrazia.
Difficile cogliere al completo la stratificazione culturale che la figura dell’asino trascina dietro di sé. Il mito ne fa la cavalcatura di Dioniso e Sileno, raccontando che il suo raglio avrebbe messo in fuga addirittura i giganti. Da Esopo ai favolisti moderni come Jean de La Fontaine che ironizza sull’incapacità dell’animale di decidere se cibarsi prima del fieno o dell’acqua, morendo così di fame, o i fratelli Grimm che tra “i musicanti di Brema”, favola raccolta e pubblicata nel 1812, menzionano un asino, possiamo comprendere la lunga durata di una tradizione nella quale il discorso morale si alterna ai lazzi caricaturali, creando una perfetta sovrapposizione tra bestia e uomo, fino a intrecciare riflessioni sui culti religiosi in una velata cornice di esoterismo. Apuleio scrive un capolavoro al centro del quale vi è proprio la metamorfosi del protagonista Lucio in asino. Prima di riacquistare le proprie sembianze, sopporterà vicissitudini e angherie che ne metteranno a rischio la vita. Sui tanti significati dell’opera apuleiana adesso non vogliamo soffermarci. Basti riflettere sul dato che Lucio diviene esperto della vita dopo averla osservata dal punto di vista scomodo e degradante dell’asino. Lo scrittore latino inoltre inaugura il proprio racconto dichiarandosi seguace del modo “milesio”, riconducendo cioè la sua parola a quell’enorme congerie novellistica tramandata sotto il nome di Fabulae Milesiae naufragate nella loro redazione originale: «Sermone isto milesio varias fabulas conseram» (Nei modi del parlar milesio intreccerò le più varie favole). È ipotizzabile che lacerti di una simile vasta produzione contenessero indizi e quadri simbolici di una qualche affinità con il casus metamorfico trattato da Apuleio. Chissà che non vi fosse un precedente sulle peregrinazioni di un uomo che si fa asino e viceversa.  
L’asino è pure responsabile della scoperta di un tradimento in una novella boccacciana (ed è probabile che il Decameron stesso sia debitore in qualcosa verso la ‘vulgata’ milesia): «Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d’Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d’Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo, cognosce lo ’nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza» (Giornata V, Novella X). Non dimentichiamo infine che Pinocchio raggiunge il paese dei balocchi dopo aver cavalcato per una notte in groppa a “un ciuchino parlante”. Per non dire della trasformazione cui vanno incontro i bambini di questa incredibile «utopica repubblica infantile», citando al riguardo Giorgio Agamben. 
Nella favola qui riportata Esopo è impietoso. L’asino cede a una lamentosità che si percepisce subito come nefasta. Schiavo è e schiavo resterà, a causa della sua indole remissiva, anzi la sua condizione va necessariamente incontro al peggio, cosa che di solito accade a chi non ha mai il coraggio di prendere partito su nulla né, dunque, di opporsi a quel che ha l’unico scopo di annientarlo.

(Di Claudia Ciardi)



Lettera miniata "A", tratta dalle Metamorfosi di Apuleio (XV secolo), Bodleian Library, Oxford


«Un asino che era al servizio di un ortolano, pregava Zeus per essere liberato dal suo padrone e venduto a un altro, dato che lì mangiava poco e faticava molto. Zeus l’ascoltò e fece sì che fosse venduto ad un vasaio: ma egli fu di nuovo malcontento, perché, a portare argilla e vasellame, faticava più di prima. Supplicò quindi di cambiare nuovamente, e fu venduto a un conciapelli. Caduto così in mano d’un padrone peggiore del precedente e vedendo il mestiere che egli esercitava, sospirava e diceva: «Ahimè disgraziato! Sarebbe stato meglio che rimanessi con i padroni di prima, perché questo, vedo bene, mi concerà anche la pelle».»


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Asini e fiabe
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