29 novembre 2015

Die goldene Adele



Foto di Maria Altmann - Sullo sfondo il ritratto della zia Adele Bloch-Bauer


“Adele in oro” è il titolo di uno dei più famosi ritratti eseguiti da Gustav Klimt, su incarico di Adele Bloch-Bauer, moglie di un noto industriale ebreo austriaco. L’opera fece molto parlare di sé nel 2006, quando dopo una lunga vertenza legale, la signora Maria Altmann, erede e nipote di Adele, riprese possesso del quadro. In quell’occasione la tela e altre opere klimtiane appartenute ai coniugi Bloch-Bauer passarono dalla galleria del Belvedere agli Stati Uniti, patria adottiva della Altmann dagli anni della seconda guerra mondiale. 
La vicenda è ora tornata alla ribalta grazie al toccante film girato da Simon Curtis, che per il ruolo della protagonista ha scelto la bravissima Helen Mirren. Al di là della trama e dei dettagli che riguardano la realizzazione della pellicola, quanto mi preme sottolineare in queste poche frasi, è l’idea di “spirituale”, anzi volendo essere precisi, quella di appropriazione spirituale nel senso mirabilmente attribuito da Thomas Mann a tale concetto, che esce fuori dal lavoro di Curtis. Dipanare il filo di una memoria è forse uno dei compiti più ardui dal punto di vista cinematografico. Se poi a questa memoria si pretende di dare spessore storico, di collocare ogni suo fotogramma all’intersezione tra individualità narrante e epoca cui si richiama, allora le difficoltà aumentano di molto. In effetti lo sfondo Jugendstil del quadro, diviene una quinta allargata della cosiddetta età dell’oro nella cultura viennese. Un mondo elitario, perfino sfarzoso, alla cui affermazione l’interessamento e il denaro dei raffinati committenti ebrei diede un significativo contributo e forse anche una sua fisiognomica. Tutto questo è reso in modo essenziale, senza sbavature né eccessi retorici. Non ci si sofferma sul pianto per la razzia nazista né narcisisticamente si indugia troppo sulla bellezza di quella stagione, pure indubbia per non dire abbagliante. Questo tempo spazzato via dalla furia della dittatura, e quindi della guerra, emerge in via frammentaria, discontinua, un flashback interrotto singhiozzante, che riflette la fatica della protagonista ad avvicinare il passato causa il nodo emotivo che vi incombe.
Se come dice Giorgio Agamben, riprendendo un celebre assunto benjaminiano, il dramma dell’oggi consiste nell’incomunicabilità dell’esperienza, la Altmann è più che mai anello di congiunzione riluttante, quando non del tutto avverso, tra l’ammutolimento provocato dalla guerra, con le sue irrisarcibili lacerazioni, e un dopo che ha preteso ogni energia perché la vita riprendesse a scorrere nel suo alveo. Due fasi alle quali non si riesce a guardare senza sentirsi braccati, estinti. E così non sorprende che questo volgersi all’indietro avvenga all’insegna di un libro per l’infanzia, la storia di un ragazzo rapito dal vento e trascinato verso una straordinaria avventura, che la Altmann leggeva insieme allo zio, la cui copia gualcita ma salva esce fuori tra gli oggetti della sorella appena deceduta. Una novella echeggiata in quelle stesse stanze della grande casa viennese, dove Adele, creatura fiabesca di malinconica femminilità, sedeva in posa davanti a Klimt, e dove le porte in modo assai simbolico, quasi in ogni ricordo, si aprono per poi richiudersi alle spalle dei protagonisti. Un dentro-fuori che è anche un prima-dopo. Spazio e tempo tendono l’uno all’altro ma non si toccano, non conservano quell’intimità dialogante che di solito appartiene alla memoria, piuttosto emergono a loro volta come quadri staccati, senza cornice, troppo rapidi perché lo sguardo riesca a soffermarsi.    
Non è un caso se il film si apre su Klimt, di cui noi vediamo solo le mani e sentiamo la voce, lenta, calda, in una sala poco illuminata. La sequenza è dominata da toni in seppia, una vecchia fotografia dimenticata in un cassetto. Il pittore è già creatura spirituale, prima emanazione di una sfera quasi mistica, quella dell’arte, cui partecipa anche chi con lui entra in contatto. Perciò anche le altre scene in cui appare Adele sono dominate dai chiaroscuri, a voler definire una presenza che si intravede soltanto. Come se tutto, persino nel momento stesso in cui stava accadendo, non fosse completamente di questo mondo. Dunque non un semplice artificio per marcare la lontananza temporale di quell’incontro di anime ma precisa scelta espressiva per parlare di un qualcosa che travalica il sentire comune. Ed è proprio questo elemento, colto e ravvivato in un’orchestrazione perfetta, grazie anche al tema musicale composto da Hans Zimmer e Martin Phipps, a rendere convincente l’opera di Curtis. Un’appropriazione spirituale, si diceva, che libera la sua carica emotiva in un crescendo ad alta intensità, dall’addio ai genitori – ultima porta che si chiude definitivamente sugli anni spensierati della giovinezza  – fino al ritorno catartico nella vecchia casa dove i volti di familiari e amici si fanno di nuovo incontro alla protagonista, così come li aveva lasciati. Qui il cerchio si chiude, con quel che è andato perduto e quello che si è cercato di recuperare in un mutilo risarcimento postumo. Da alcuni punti di vista, il narrare di Curtis mi ha suggerito le atmosfere e la struggente pacatezza di Il posto delle fragole di Bergman, soprattutto nel commiato della protagonista dai genitori. Pur essendo scene concepite in modo assolutamente diverso, si può dire che una sensibilità di fondo le avvicini, almeno questa è stata la mia impressione. Tra l’altro solo pochi giorni prima, mi era capitato di vedere per la prima volta Kundun, il tributo di Martin Scorsese al Tibet. Devo dire che è stata una piccola fortuna, perché ne ho tratto tutto il fascino sprigionato da un sincretismo di opposti dove spirito e natura si congiungono in quell’unicum annunciato da Mann come piena affermazione dell’umano. E ancora una volta, in modo per l’appunto casuale, ciò mi ha evidenziato una singolare sintonia sentimentale con la storia della Altmann. Attimi di autentica strappati con sempre maggiore difficoltà all’incedere fragoroso del quotidiano e che facciamo fatica pure a riconoscere, qualora qualcuno riesca nell’impresa affatto scontata di raccontarceli. Non mi hanno quindi stupita alcuni commenti piuttosto freddi, che dimostrano l’aver ignorato del tutto lo scavo emotivo compiuto dal regista. Per me un’appropriazione spirituale è quando in autunno all’imbrunire mi capita di passeggiare rasentando il muro dell’orto botanico a Pisa, immersa in un silenzio e una luce irreali, oppure quando la domenica in campagna, a casa dei miei, sento entrare dalla finestra le note imprecise e ripetitive di un violino, e starei ore ad ascoltarlo, o ancora quando a Barcola, sul golfo di Trieste, mi ha sorpresa un temporale. Oppure… ma va bene, non c’entra granché o forse sì. Sono cose che non si possono insegnare; si sentono o non si sentono. Magari basterebbe a volte soffermarsi un po’ di più.

(Di Claudia Ciardi)



Maria Altmann Theme (soundtrack) 

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Klimt a Milano (La mostra di Palazzo Reale organizzata in collaborazione col Belvedere di Vienna)

Gustav Klimt - Secession

21 novembre 2015

L'università del dissenso



Qualche rigo per introdurre l’articolo citato nel mio precedente contributo. Come già detto, l’attualità delle riflessioni di questo pezzo basta a meritare la loro riproposta. La forma in cui è stato scritto, nove anni or sono, permette al tema di parlare ancora con chiarezza. Il fatto che si prenda spunto da un testo sessantottino ha un valore accidentale; il ragionamento degli studiosi chiamati in causa trova infatti una sua consistenza ben al di là delle fitte retoriche costruite intorno alla protesta. Resta innegabile che un generale ripensamento di certi apparati non sarebbe emerso senza quella sfaccettata sollevazione di coscienze, dove aspetti senz’altro puerili convivevano con una dissidenza più meditata. Ho avuto la fortuna di farmi spiegare il Sessantotto da chi lo aveva vissuto, anche se forse il racconto più sincero è venuto dal mio primo compagno, che da ragazzo organizzò i mercatini rossi nelle periferie della città e passò le nottate a ciclostilare volantini. Si prese qualche manganellata e non fece carriera politica. Quasi tre decenni dopo, quando io l’ho conosciuto, ne parlava all’ombra della sua sterminata biblioteca come un’avventura giovanile, rivendicandone tuttavia il fondamentale contribuito allo svecchiamento del sistema. Di fronte alla mia perplessità, mi ripeteva che qualcosa era stato smosso, qualcosa che oggi, insieme a molto altro, si tende a dare per scontato. 
Anche in queste stesse ore. Mentre ascoltiamo ovunque l’invito a custodire i “valori occidentali”, dimentichiamo che non si tratta di assiomi, ignorando peraltro la lunga e traumatica vicenda della loro conquista, ma anche l’altrettanto turbolenta fase della loro discussione interna ed esterna. Sulle scissioni del nostro tempo, troppo spesso descritto nei termini di una asintomatica variabile, indegna perfino di un manuale di fisica, riporto alcune frasi che Thomas Mann, attaccato in modo pretestuoso da alcuni giornalisti americani, dedicò alla polemica che lo coinvolse nel 1951. Mi sembrano emblematiche di come il confronto democratico, sviato ad arte da personaggi di dubbia caratura morale, ma evidentemente molto comodi quando ci si prepara a una “caccia alle streghe” in piena regola, corra il rischio di finire in un pantano di irrazionalità dove vengono gettati tutti, tranne quelli che soffiano sul fuoco.
   
«…Mi viene dato del bugiardo solo perché il signor Tillinger crede unicamente alle sue “streghe”. Ho replicato a lui e al «Freeman», e posso contare sul fatto che la stampa riporterà immediatamente la mia risposta. Certo, tutto ciò rimane un’infamia sintomatica, tanto quanto una truce sciocchezza. Rinnegati ex comunisti ed ex spioni sovietici, esperti traditori – senza alcuna eccezione! – si ergono e sono accettati quali paladini della democrazia. Gente incapace di distinguere il nero dal bianco e che, almeno presumibilmente, ritiene i trucchi più primitivi della propaganda comunista migliore moneta della parola di un uomo, d’integrità finora indiscussa; questa è la gente chiamata a difendere la decenza e la libertà. Non sono comunista e non lo sono mai stato. Nemmeno sono suo compagno di viaggio, né potrei mai esserlo, lì dove il viaggio finisce nel totalitarismo. In quest’occasione, però, voglia essere dichiarato che in questo paese, di cui diventare cittadino è stato per me un onore, l’odio per i comunisti – isterico, irrazionale e cieco – rappresenta un pericolo di gran lunga più terribile del comunismo all’interno; si appare in procinto di cadere e di abbandonarsi completamente alla follia persecutrice e al furore persecutorio; tutto questo non solo non potrà condurre a nulla di buono, bensì, se al più presto non si riflette, condurrà al peggio». (Thomas Mann, Io constato…)

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Molte delle argomentazioni qui evidenziate vengono da un vivace libro di storia politica, L’università del dissenso, Einaudi, a cura di Theodore Roszak, dato alle stampe nel clima di protesta del ’68. Distanziandosi dagli entusiasmi gratuiti che quel periodo suscitò e che sono alla base di una sua impolitica mitizzazione, questo volume si configura come un osservatorio attento allo stallo culturale della società statunitense nel decennio che va dai Sessanta ai Settanta, difficoltà ancora insuperata e che, anzi, rappresenta tutt’oggi un elemento di crisi profonda del mondo occidentale.

Vorrei cominciare questa mia riflessione con le parole di Louis Kampf, un professore americano controcorrente che, negli anni ’60-’70, insieme a pochi altri colleghi, mantenne uno sguardo lucido su quello che stava succedendo nel mondo accademico del suo paese, rilevando la pesante compromissione delle sfere più alte della cultura con la crescente aggressività dell’imperialismo statunitense.
«Al congresso dell’anno scorso [si tratta della Modern Language Association] mi sentii quasi sopraffatto dal pensiero del Vietnam. Vedevo, al posto dei miei colleghi accademici, fantasmi di contadini vietnamiti bruciati dal napalm. C’era qualcuno, in tutto il congresso, che se ne preoccupava? C’era qualcuno, fra coloro che in quel momento leggevano le loro comunicazioni, che metteva il suo lavoro in rapporto a questo problema? Qualcuno la cui umanità entrasse a far parte dell’abilità tecnica? A un certo punto mi trovai immerso nella seguente fantasia: se tutti questi 15 mila congressisti, infuriati per la carneficina che sta avvenendo nel Vietnam, decidessero di occupare la Casa Bianca…»
Il sistema americano, bisognoso di reclutare nel minor tempo possibile persone che mostrassero di abbracciare in maniera acritica le ideologie dominanti, aveva cominciato a costruire, con particolare incremento nel secondo dopoguerra, la propria strategia di mercenariato, volto all’accrescimento dei ranghi di un’élite che ratificasse senza sollevare problemi e polemiche di natura sociale e morale, le decisioni governative. L’allettamento principale, attraverso cui lo Stato si assicurava la collaborazione incondizionata dei soggetti reclutati, erano i soldi. Le continue promesse di carriere, premi, avanzamenti, vacanze, crearono una competizione esasperata tra chi faceva parte o si accingeva a frequentare le roccaforti della cultura americana.
Le aspirazioni carrieristiche dei singoli distolsero sempre più dai reali compiti critici della cultura e distrussero soprattutto i legami tra gli uomini che detenevano un sapere più alto rispetto alla media e che, fino a un certo momento, avevano quantomeno tentato di interpretare i loro rapporti alla luce se non di un attivismo sociale, almeno di un’idea di impegno morale nei confronti della collettività.
I legami all’interno dei componenti della classe dirigente e dei corpi accademici vennero destinati al mantenimento di vuoti formalismi e apparenze, ai quali i singoli mostravano di adempiere entusiasticamente, ancora una volta per trarre ulteriori vantaggi personali. In questo rincorrersi di egoistiche aspettative, l’impegno culturale militante andava a farsi benedire, le facoltà scientifiche conoscevano tempi d’oro grazie a lauti finanziamenti, perché da quelle ci si attendeva l’innovazione, soprattutto a livello di tecnologie belliche, che avrebbero guidato alla conquista del mondo e portato prosperità al paese, mentre gli umanisti alloggiavano in soffitta. Ci si doveva assicurare che non venissero fuori dei novelli philosophes che tanto avevano insistito sulla militanza delle lettere; era necessario che queste discipline fossero relegate in uno spazio estetizzante, poco visibile, ma ben lustro e accogliente, quanto bastava per tenere mansueti i suoi abitatori. 
Gli allettamenti monetari hanno funzionato davvero bene in questa prospettiva. Louis Kampf rilevava come l’evanescenza del mondo accademico, comprato dai vertici dello Stato, costituisse un’enorme problema politico, dal momento che la cultura rinunciava così ad una necessaria dimensione di indipendenza e al proprio compito di discussione critica dei problemi della società.
Theodore Roszak, nome importante della retroguardia accademica americana, si è soffermato sul fenomeno della ricerca, di come questa, ripiegata su se stessa e svuotata di molte finalità concrete, aveva prodotto splendidi risultati specialistici, destinati ad arricchire molte scaffalature di biblioteche. Ma sulla validità delle tante compilazioni c’era molto da dire. Quante servivano a tenere i singoli inchiodati alle sedie dei loro studi, impegnati in cose che irrimediabilmente li avrebbero distolti dalla realtà effettuale? 
Ora, è lecito avere opinioni diverse sulla ricerca, e io personalmente che sono onnivora di letture non ho difficoltà ad ammettere che a un certo punto un qualche studioso, per elaborare la propria teoria, avrà bisogno di ripescare precedenti lavori che si pensavano avviati a un definitivo anonimato. Ma la questione che pongono Kampf e Roszak riguarda l’urgenza morale di un risveglio dal torpore in cui abbiamo condannato le ricadute concrete del nostro sapere (e dunque saper fare!), visto che molte delle problematiche dell’università americana sollevate trenta, quarant’anni fa, restano ancora insolute.
Mi riferisco ad esempio allo scandalo che si consuma attorno alle lettere. A che serve lo studio della letteratura, se non si trae dai suoi testi un insegnamento morale e non lo si trasmette alla collettività? La funzione degli studi umanistici pare arrestarsi al compito di far apparire un po’ meno rozzi gli uomini di scienza, in generale riducendosi a corollario di qualcos’altro. Che le università siano diventate in molti casi l’incubatore di una vacuità culturale e, per conseguenza, professionale è un triste dato oggettivo. La crisi dell’occupazione viene in buona parte da una debolezza estrema, per così dire dialettica, del sistema scolastico. 
Si è senza dubbio registrata negli ultimi anni una preoccupante acutizzazione dei processi di svendita culturale, e si è incrementata la rinuncia a formare persone consapevoli e dotate di una coscienza critica. Mi pare quindi che gli appelli dei due intellettuali citati siano, a oggi, disattesi.
Quando si rinuncia alla cultura e all’insegnamento morale che racchiude, quando non ci si sofferma più ad analizzare i fenomeni e si perde contatto con gli strumenti che a ciò servono, si butta via la possibilità di criticare le nostre stesse azioni.
Ed è per questo, forse, che abbiamo una quantità elevatissima di studi sui danni della deforestazione, ma stiamo cancellando dalla faccia della terra le foreste primarie, come in Camerun e in Borneo. E gli studenti non bloccano le lezioni per parlare insieme ai professori delle stragi del Libano, della guerra in Iraq o per analizzare le cause del pericolo terrorista, ma pensano a quanti crediti stanno accumulando con i corsi e gli esami.
Si svegli chi può!

(Di Claudia Ciardi – agosto 2006)

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Erika Mann - The lights go down (Wenn die Lichter ausgehen)

Un caffè con Weber

17 novembre 2015

Un caffè con Weber


Vincent van Gogh, Vecchio seduto, (1890) olio su tela, Otterlo, Kroller-Muller Museum

Era il 2006, un anno importante sul piano personale, per alcuni incontri che si materializzarono nella mia vita, quasi fossero stati preparati e rafforzati da certe letture in cui mi addentrai allora in circostanze assolutamente casuali. Mi riferisco alla saggistica antropologica e alla poesia americana. L’antropologia innescò un lento processo di apertura verso l’esterno, cosa che l’esperienza universitaria aveva offerto in dosi carentissime, e inaugurò una fase di rimozione di quelli che nella sfera culturale si potrebbero definire freni inibitori. Espressione questa che forse suscita qualche perplessità, ma non saprei trovarne una più appropriata ripensando dopo tanto tempo a come la pluriennale ligia attenzione da parte mia a programmi e studi troppo poco discussi nel divenire delle cose, avesse stemperato una certa vivacità critica, o meglio, l’avesse messa al bando sul nascere. E qui ebbe inizio anche una singolare rottura, che purtroppo non trovò altro sbocco se non in una definitiva presa di distanza. Il chiuso delle aule aveva un volto piuttosto compiaciuto, non vi era alcuna drammatizzazione al riguardo, il corpo accademico rattrappiva ingessato e contrapposto da presunte distrofie ideologiche o da semplice disinteresse verso un progetto comune. Siccome l’obiezione sarebbe riuscita a manifestarsi solo dopo aver intrapreso dei giri molto larghi e sempre trascinandosi dietro lo spettro del fraintendimento, fu abbastanza naturale arretrare. Chiaramente nella totale indifferenza, ci sarebbe stato da sorprendersi del contrario. 
In parallelo, la poesia americana che cominciai a divorare allora, da Ezra Pound a Lawrence Ferlinghetti, gustati in piena beatitudine, nel rigetto istintivo di biografi e commentatori, mi aiutò a traghettare l’ormai appesantito bagaglio dei classici verso altre direzioni. Si può dire che sul piano letterario avvenne ciò che aveva insidiato, ribaltandolo, il mio sguardo sulla realtà. Era bastato entrare in una stanza e aprire una finestra per respirare un po’ d’aria fresca, gesti in apparenza banali ma non così tanto se qualcuno con una scusa o con un’altra ci tiene lontano dalla porta. L’ingenuità in cui mi dibattevo era tuttavia colossale. Non si tocca un personaggio ingombrante come Pound, pensando di campare solo dei suoi versi. Quello che io davo per scontato, non lo era per altri. Mi trascinai mio malgrado in una strana situazione, dove un interesse del tutto spontaneo per un poeta veniva stiracchiato e quindi platealmente tradito. Bisognava intanto capire chi fosse costei che parlava del poeta fascista. Una simpatizzante o un’innocua da palleggiare perché una bandiera fosse portata davanti a un’altra? Due aspetti che avrebbero potuto tranquillamente coesistere, sulla cui convivenza si faceva anzi un grande affidamento. Il bello però doveva ancora venire. La questione ebraica. Nel dubbio che fossi un’antisemita, l’indagine proseguì. Poiché avevo frequentazioni tedesche, pur non facendo parte di nessun empireo universitario, a che titolo soggiornavo in Germania, non avendo una borsa di studio né figurando il mio nome in nessuna zona franca nepotista? Credo di aver fatto un pieno di luoghi comuni come mai in nessun’altra stagione della mia vita. Per fortuna, quando questo controllo kafkiano mostrò il suo profilo dozzinale e abborracciato, i doni della poesia si erano già consolidati in me, e la seccatura in cui ero incappata non li poté disperdere. Fu come se stessi guadando un fiume in piena notte. Mentre qualcuno aspettava nel punto in cui mi ero immersa, pensando che sarei presto tornata indietro, i miei piedi poggiavano già su un fondale sicuro. E non se ne parlò più, com’era prevedibile, com’è sempre quando le cose cominciano mancando di autenticità, e su una forzatura così evidente pretenderebbero di accampare anche qualche diritto. 
Estate di nove anni fa, dunque. Con l’insospettabile immediatezza di un’alchimia tutto bruciò in me a una velocità vertiginosa. A un tale processo contribuì molto l’amicizia e il dialogo con una cerchia bizzarra e tutto sommato eterogenea per età e inclinazioni che mi spronò a andare fino in fondo a quel ripensamento. La rivolta interiore insomma abbracciò felicemente i suoi complici. 
Ma c’è un episodio che ricordo in particolare, fra le lunghe chiacchierate dell’anno in cui meglio mi sono conosciuta. Avvenne con uno studente fuori corso, ignoro chi me l’avesse presentato né come ci ritrovammo soli a un tavolino a parlare e parlare. Passarono due ore forse più e sembrava che ci fossimo appena seduti. A un tratto, confessò: «Io comunque mollo, ho bisogno di un lavoro. Non so neppure se lo troverò. Con questa roba non vado da nessuna parte. Qui siamo rimasti a Weber, te lo propinano come una Bibbia, e dopo sembra che non sia esistito altro. Siamo fermi al primo dopoguerra, quando va bene».
Fu una dichiarazione d’intenti abbastanza brusca e diceva tutto. Era anche molto più avanti di me. Se io avevo un’insofferenza generica verso alcune forme della ritualità accademica che mi sembravano indisponibili alla comunicazione e all’incontro, lui si era posto il problema di un’utilità reale, una ricaduta concreta di quello che era materia di studio. Fino a allora non avevo pensato di mettere in discussione, diciamo così, la sostanza del modello. Pur espressa in modo un po’ approssimato, la sua indignazione fotografava la comunità studentesca, nel suo intero o quasi, come un recipiente cui era destinato molto poco di quello che si sarebbe dovuto sapere, e quel poco era esposto a diverse storture se non proprio stravolto. Per lui, l’aver avuto coscienza di una cosa simile, bastava e avanzava a farlo desistere dal proseguire.
Qualche settimana dopo scrissi un articolo su questi temi, un articolo asciutto, direi maturo, che tuttora rivendica a pieno titolo l’attualità dell’argomento sollevato davanti a quel caffè, senza rivelare direi nessuna giovanile sfasatura, o se anche fosse, la si percepisce molto in sordina. Ecco perché mi sorprende non poco chi mi legge adesso, quando, inciampando in qualcosa che magari non gradisce su basi ideologiche, sposta il proprio fastidio su una mia presunta attitudine a imbarcarmi, a soggiacere a aspetti un po’ troppo ruvidi per una personalità femminile, a invischiarmi nella polemica – molto poco femminile anche questo – tutte cose che, volendo essere obiettivi, si sono sempre date, fin dal primo momento in cui ho cominciato a scrivere, e non mi pare abbiano corroborato nulla di eccessivamente indigesto.
Alcuni, quando leggono qualcosa senza aver prima allentato i lacci che legano la loro sensibilità, pregiudizi che condizionano irrimediabilmente il loro rapporto con l’altro, di cui credono di conoscere il carattere, tendono a scambiare un atteggiamento critico per una morbosa assiduità nel non essere in pace con se stessi. Quando dicono “arrabbiato” intendono “poverino”, mentre la rabbia è un sentimento pure molto nobile, quando è ragionato rifiuto di cose ingiuste e superficiali che attentano a un dibattito, al confronto di posizioni differenti, estromesse per impedirne l’integrazione, e non ha perciò nulla a che spartire con il pregiudizio borghese.   
E vengo a quanto ha sorretto fin qui il mio ragionare. L’incomunicabilità. Le lacerazioni che attraversano il nostro mondo, quello in cui comprensibilmente rivendichiamo di voler stare tranquilli, un mondo che nulla potrà impedire vada nella direzione della pace, della cultura e della convivenza proficua tra esseri umani, non solo in occidente ma ovunque, le tragedie che scuotono quelle che un attimo prima pensavamo fossero per noi delle indiscutibili certezze, uscire, incontrarsi, visitare un museo, sono figlie di una incomunicabilità di fondo. Siamo divisi, violentemente contrapposti anche a casa nostra. Il divario sociale scava solchi spaventosi. Disoccupazione, sacche di esclusi, diseredati, gente per cui l’opportunità di un riscatto dovrebbe essere contemplata al pari di coloro che quell’opportunità riescono a coglierla assai precocemente nella propria vita. Non possiamo ignorare che tutto questo ci indebolisca e ci esponga. La scuola, l’università devono essere strutture formative vere, comunità condivise e frequentate dai cittadini, anche dopo che il ciclo di studi di ognuno si sia concluso. Io vedo, invece, un occidente sempre più frantumato, colmo di livore, di deliri revanscisti degli uni contro gli altri, in preda a falsi ideologismi, a atteggiamenti di sconvolgente incongruenza qualsiasi siano i problemi che ci pungolano a cercare delle soluzioni. È chiaramente una guerra, strisciante, brutale come solo una guerra può esserlo, una rappresentazione bellica in astratto, perché si annida in una mentalità, quella occidentale odierna, che non vuole riconoscersi anche nelle sue debolezze. Non ci sarebbe nulla di male, anzi, ne usciremmo rafforzati. E il terrore non troverebbe più dove ingaggiare la propria battaglia.

(Di Claudia Ciardi)

9 novembre 2015

Taboga





Numeri, statistiche, salterii. Un essere sta a un formulario come un fiume al deserto. Vite cifrate, e questo è tutto. Computisteria del linguaggio, dozzinale classificazione di un carattere e di una psiche: l’arrabbiato, il nevrotico, il subdolo, l’arrogante, il candido, l’edipico, il faustiano, il narciso. Declinabili anche al femminile, ovvio, tendenti a una casistica infinita. Reclinabili in oggetti, collocati in non meno intasate circostanze. L’essere cosa, la più fine scoperta dei tempi. Specchi buoni o cattivi, muti o parlanti, con matrigna o senza, commerci e denari, ipoteche, saldi di fine stagione, svendite, aste, voglie inconfessate, erotismi confusi o stancamente estrusi. Ingenuità affacciata sul mercato, una piazza di barattieri, molte voci nessuna opinione. Oliato esercizio dell’imbroglio, moto di rapina. Il contabile? In fondo al corridoio, ultima porta. Annota le paranoie altrui, sbocconcellando frasi, la pietra pomice gli sbatte tra medio e anulare, scartavetra ipotetiche di un possibile abbastanza irreale mentre sull’indice tiene attaccati i duali e scompone i triviali. Andamento runico o latino classico? Agrammatismo. Gran brutto segno, qui si rasenta la nevrosi. 
Che esistesse anche questo mestiere di scodellatori della parola, inzuppata nei raggiri lessicali, benedetta dall’analista testamentario, proprio non lo potevo immaginare. Da qualche parte si taglia e cuce una lingua per ottenere un profilo criminale. Perché l’osservatore annota solo il difetto, tutto quel che stona è incriminato, e il capo d’accusa segue a ruota. Se malauguratamente un disturbo non si trova, il vizioso non potrà certo rischiare se stesso. No davvero, bisogna che inventi qualcosa, che provveda alla malalingua computazionale. Annaffierà ogni interlinea col sospetto, stravolgerà il senso seminando cretinerie in toni e semitoni purché l’impianto accusatorio non sia compromesso.  Potere del pregiudizio, quanti alleati. 
Di anno in anno soccombenti alle medesime affezioni, loro i dottori dell’alter ego, non riescono a guarire. A testa in giù dentro i gironi a cui sono assegnati, così alacri nell’andare incontro ai peccatori, che qualcuno gli ha ordinato di redimere, da essere prevedibili. È triste constatare gli umani limiti ma pur sempre umano. Alla rivelazione della stupidità, invece, non c’è verso di rassegnarsi. Ci si sente anzi gettati nello sconforto. Ciò da cui è tratto un singolare giovamento, necessario perché l’istinto di sopravvivenza si mantenga in posizione eretta, quella volontà di ognuno che tende alla realizzazione ed è appesa a un filo assai sottile, la fiducia nelle capacità degli altri, subisce un danno. In alcuni casi anche irreparabile.
Non è un contraccolpo da poco. Potrebbe sopraggiungere anche la morte per asfissia. Sforzi e aspettative scialacquati in qualche frazione di secondo. Ma come si è arrivati a tanto? E più temibile ancora, il carattere violento della stupidità affatto nuova a simili svolte. C’è nel guardare da un angolo ottuso un’assurda propensione a fare del male, a agire con protervia, a sovvertire i significati, elemento comune all’imbalsamatore di lingue appena raccontato. Il vivere sospettando genera altro sospetto, ma sempre più esteso, incallito e di volta in volta più offuscato in rapporto a una sana percezione delle cose. Gli addendi e le proporzioni sono gradualmente stravolti, scambiati. Già, perché lo stolto, soffermandosi poco e niente, si chiama fuori dalla realtà, e questo scarsissimo grado di coinvolgimento lo induce a passar sopra, a perpetrare la sostituzione senza il minimo rimorso. 
Tra formule pasticci raggiri legalmente imbanditi, mentre si prende atto dell’assurdo con leggerezza, scherzandoci sopra come una tollerabile devianza, un impiccio di cui liberarsi con un’alzata di spalle, ecco sopraggiungere il colpo. L’irruzione è tanto repentina quanto efficace. Piomba su una resistenza ormai sviata, per meglio dire spirituale, nel senso del suo quasi totale distacco dalle vicende terrene; del resto, una tale iniziativa non verrebbe mai presa se non si andasse sul sicuro. 
L’urna è rovesciata, l’alveare staccato dal ramo, preso a calci. Ognuno, come ape operosa, fino a un attimo prima se ne stava chiuso nel suo nido sigillato di cera. Un buco confortevole e caldo bastante a tenere il mondo a distanza. Fuori il lavoro – perché a un’ape il lavoro non manca – e dentro la pace domestica. Poi d’un tratto, che gran brutta corrente d’aria! Da dove viene, cosa annuncia? 
Il cifrario è stato cambiato, nulla sarà più come prima. Nuovi ordini, tutto da rifare. 
Il contabile ora è in ambasce. Altro che qualche sbellicamento di parole, qui non si sa più dove guardare. Ma l’imbecillità essendo entrata ovunque nell’alveare, s’illuderà che ogni cosa sia rimasta al suo posto, come nulla fosse. E senza renderci conto di essere stati scaraventati giù, talmente in basso da non capire neanche dove siamo, penseremo di vivere ancora appesi a un ramo dove niente e nessuno verrà a disturbare. E di tutto si farà una giostra. Provino i signori lo scivolo più alto mai costruito. Mentre la musica stempera la paura del salto, intorno la folla preme per avere un biglietto.


(Di Claudia Ciardi)



* Insieme ai due qui pubblicati, Risus abundat! e Guglielmo II e la tenzone dei coboldi, questo pezzo fa parte di una galleria di prose di andamento polemista e totemico, un’irregolare riflessione sul vivere, liberamente ispirata a Einbahnstraße di Walter Benjamin. 

3 novembre 2015

Igort - Quaderni ucraini






L’opera di Igort, disegnatore nato a Cagliari cinquantasette anni fa e bolognese di adozione, è stata per me una delle più interessanti scoperte narrative sulla vicenda ucraina. In generale direi che è finora una della più belle graphic novel che mi sia capitato di leggere. Un volume denso che ripercorre le principali e strazianti tappe della storia del paese, dalle collettivizzazioni staliniane, passando per l’invasione nazista e l’inquinamento radioattivo, a oggi. Un paese povero difficile, poco amato dai suoi amministratori, troppo spesso corrotti quando non spudoratamente collusi con la criminalità locale. Patria perciò di disagio, divario, scissioni, violenze, drammi. Luogo destinato a oscillare tra la farsa delle “rivoluzioni colorate” e i carri armati russi. Nel febbraio 2014 abbiamo visto com’è finita a piazza Majdan. Un massacro consumato tra un’opinione pubblica cosiddetta europeista che se ne sbatteva dei fremiti fascisteggianti di Kiev – come dire, va bene tutto, purché sia muro contro muro con la Russia – e dall’altra parte gli entourages sovietici sempre più determinati a trasformare la questione ucraina in una prova di forza. Intanto la crisi economica si è aggravata. Sempre nel 2014 i razionamenti dell’energia elettrica hanno comportato il ritorno all’utilizzo del carbone e della legna anche in città, con un conseguente aumento dei prezzi di questi materiali. Nella sua appendice Igort dedica una tavola più che eloquente alle foreste della steppa, minacciate dall’assalto al legname da parte di bisognosi e trafficanti.
Quanto a me, per tutto il periodo delle medie, associai l’Ucraina al mio manuale di tecnica. E più precisamente a una pagina di quel manuale che descriveva l’incidente di Černobyl’. Una striminzita cronologia sulle fasi del disastro, descritto ora per ora, da cui trapelava una crescente concitazione mentre la cosa scivolava di mano agli addetti. Insomma, nell’adolescenza l’Ucraina fu per me nient’altro che un incubo nucleare, rafforzato dalla presenza dei bambini contaminati ospiti di alcune colonie marine. L’Holodomor non sapevo neppure cosa fosse. La prima volta che ho sentito questa parola, prima ancora di capire a cosa si riferisse, ricordo di averla percepita in tutta la sua negatività; era a causa delle sillabe, come dire, mi suonava male. In genere succede così, i suoni mi influenzano, anche dopo averli riportati al loro significato. Qualora una spiegazione venga in soccorso e attenui l’effetto negativo, e non è certo questo il caso, la mia sensibilità si converte a fatica.
Holodomor, suono scuro, pesante, una di quelle parole che ti battono in testa fredde come il ferro. Dal ’31 al ’33 l’Ucraina, la regione del Kuban’, il Kazakistan sono falcidiati dalla carestia. Le vittime vengono stimate tra i 4 e i 7 milioni. Ci si liberava dei corpi scaricandoli in fosse comuni. Venivano issati a gruppi di venti sui carri, come si faceva durante le epidemie. Qualcuno, ancora vivo, si divincolava in mezzo alla catasta, troppo debole per liberarsi. I monatti ucraini arrivavano di notte, nei villaggi, un giro silenzioso, affrettato, con cui si cercava di occultare l’orrore. Questa la conseguenza degli espropri stalinisti. Un autentico genocidio che Igort evoca con struggenti litanie di volti disegnati a carboncino, fantasmi in giacca e colbacco, in fila con una valigia in mano, avviati alla deportazione. E poi le isbe, le fattorie abbandonate, corpi rantolanti di fronte a un focolare vuoto.
L’Ucraina è stata per la Russia ciò che l’Egitto fu per Roma: un immenso granaio, la dispensa dell’impero. Sotto Stalin venne avviato un programma a marce forzate teso a sostenere l’industrializzazione sovietica; i prodotti agricoli, principalmente il grano, furono prelevati per la quasi totalità dai commissari incaricati. Con un impatto devastante sull’economia e sui secolari equilibri di quel mondo. Annientata la proprietà, spazzate via in un soffio le relazioni che ruotavano attorno a questa. I funzionari furono così cinicamente zelanti nell’attuare il piano che lo stesso Stalin ebbe a lamentarsene. Tardi comunque e con lacrime di coccodrillo. Più che altro gli bruciava la consapevolezza che l’Ucraina sarebbe stata da allora in poi refrattaria al sentimentalismo russofilo. Solita cecità della politica di regime. Pretendere tutto e subito, bruciare le tappe a qualsiasi prezzo, fosse anche l’autodistruzione. Quello ucraino è un popolo paziente, avvezzo alla fatica, al sacrificio. Come in ogni società contadina, il carattere è dato dalle lunghe attese cui abitua la natura. Sfiancarlo, svilirlo, perseguitarlo è stato un errore colossale, irrimediabile. Un vulnus che resta lì, aperto, talmente sconcio da far rabbrividire. E anche ora la Russia, anziché assecondare l’indole di questo popolo, slavo di cultura, dunque vicino, più che mai vicino – impossibile non capirsi tra vicini, se non per una reciproca voluta sconsideratezza – insiste sulla strada dello scontro aperto, perfino del terrore. 
La terra, dunque. Questa sconfinata bellezza ucraina. Oggi i giovani non la vedono come una risorsa. È semmai qualcosa che suscita apprensione. Inurbamento e fine violenta di un microcosmo tradizionale, antico, cosparso di una grazia originaria. Morte pasoliniana di un mondo arcaico. Come è stato per il nostro meridione e per ogni collettività trascinata nel livellamento capitalista. Con l’aggravante del nazismo e dei soviet; proprio il caso di dire che gli ucraini hanno sperimentato tutte le “opzioni” politiche. E i segni sulla loro pelle sono ben visibili.
Igort punta la sua matita sulla leva biografica. Nel libro si alterna una galleria di ritratti, visi di anziani con una storia familiare sconvolgente alle spalle e davanti a loro. Perché sempre ci sono i figli, perduti allo stesso modo e forse anche peggio in questo Holodomor permanente, una carestia della storia, una vacatio di potere e progettualità politica che dura da troppo tempo. Holodomor, parola grave, di timbro cupo che suona ancora più triste quando si apprende che neppure sul riconoscimento della carestia come crimine contro l’umanità gli Stati sovrani sono riusciti a pronunciarsi in modo unanime. Fra i sottoscrittori pesano le assenze di Cina, Russia, Francia, Inghilterra e Germania, per citare le più vistose. 
Molti sentimenti scuotono le pagine di questo reportage. Tutto ruota attorno a un’umanità gentile ma annichilita, rassegnata, ormai chiusa in se stessa, per aver visto oltre ciò che è umanamente sopportabile. E tutto torna sempre alla terra, eterno ciclo degli eventi. Quella campagna generosa ma anche estremamente desolata che Igort inserisce come un fondale ritmico nel suo racconto. Un personaggio silenzioso eppure potente che entra dappertutto, vero specchio dell’anima ucraina, radice della sua identità e resistenza.

(Di Claudia Ciardi) 


Igort – Quaderni ucraini. Le radici del conflitto.
Un reportage disegnato,
Coconino Press, 2010 (2014)






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