31 agosto 2016

Marc Augé - Nonluoghi



Egon Schiele - Una casa


«Non si possono più riconoscere
i monumenti dell’epoca trascorsa,
immensi spalti ha consunto il tempo vorace.
Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,
giacciono tetti sepolti in vasti ruderi.
Non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino:
ecco che possono anche le città morire».

Rutilio Namaziano, De reditu suo



Credo che il passo del poema tardolatino composto da Namaziano si presti molto bene a introdurre questo breve discorso sull’antropologia di Marc Augé, di cui ho sempre letto con interesse la produzione saggistica. Francese di Poitiers, nato nel 1935, instancabile viaggiatore come si addice a chi pratichi il mestiere di osservare uomini appartenenti a diverse latitudini e culture, è autore di numerosi studi che non solo hanno contribuito ad aprire nuovi itinerari nella sua disciplina, ma si sono imposti a livello assai più ampio, cosa ben attestata dalla diffusione di alcuni suoi neologismi, uno su tutti quello di “nonluogo”. Ricordo di essere tornata alla lettura di Augé un paio di anni fa, nel corso di una sosta affatto breve alla stazione di Milano. In quelle ore sentii l’esigenza di tuffarmi tra i suoi libri e feci incetta delle ultime edizioni riviste e introdotte ex novo dall’antropologo. Trovai anche abbastanza singolare d’essermi imbattuta, sempre in quella strana giornata di rimeditazione degli argomenti di Augé, in un corteo di attivisti in partenza per Ginevra che inscenarono una prolungata invasione delle zone di attesa per difendere il diritto al libero attraversamento delle frontiere europee da parte dei cittadini extracomunitari. Tema spinoso che si sarebbe materializzato di lì a un anno con la grande spinta migratoria, determinando i bivacchi d’emergenza proprio in stazione centrale a Milano, immagine stridente con l’inaugurazione di Expo, e le famose marce dei disperati sulla via dei Balcani. Della concitazione di quelle settimane si rammenta troppo poco, se non l’imbarazzo stizzito degli euro leader e il cosiddetto coraggio della Cancelliera che da una parte voleva accogliere e dall’altra premeva, senza parere, affinché la rotta balcanica venisse sigillata al più presto. E qui si potrebbe malignare ulteriormente: in tal modo il peso sarebbe tornato a scaricarsi in direzione univoca sull’Italia, cosa accaduta con la puntualità di una pendola prussiana.
Rileggere allora le pagine dedicate da Augé al concetto di frontiera è stato un esercizio di grande utilità per mettere meglio a fuoco le dinamiche in atto ma anche le non poche dissennatezze politiche espresse da tutte le parti in gioco; mentre il parlamento europeo sbandierava il rispetto dei diritti umani, a est ferveva il lavoro attorno ai muri anti migranti. E dunque ecco spuntare la domanda di sempre: quale Europa?
Nel definire la contemporaneità una messa in discussione dalle fondamenta delle idee consolidate di spazio e tempo, lo studioso francese ci parla di un inevitabile scorrimento delle frontiere, moto parallelo al manifestarsi delle direttrici globali. Non sono solo i confini fisicamente tracciati e riconosciuti in un territorio a essere ripensati ma anche le nostre stesse barriere interne orientate a negoziare un’identità condivisa, a costituire gruppi e nuclei comunitari dai tratti distintivi che siano al contempo punti d’incontro per l’altro. In un livellamento anonimo, consumato a ritmi vertiginosi, pure il rito di conoscenza e accettazione dell’alterità, processo fondamentale nella definizione del sé, sembra condannato a svuotarsi. Orizzonti, consuetudini, bisogni omologati prosciugano i particolarismi, rendono quasi superflua ogni ipotesi di differenziazione. In tal senso la scomparsa della frontiera potrebbe venire accolta come il realizzarsi di un’utopia umanistica per così dire liberatoria e coerente con le tendenze attuali. Mentre Augé appunto ci mette in guardia dalle false semplificazioni. La globalità, come lui la chiama, è omologante in superficie ma contiene i medesimi nuclei narrativi su cui l’antropologia indaga dall’inizio del suo operare. L’accelerazione di tempo e spazio, lo schiacciamento delle coordinate da cui l’essere umano era solito attribuire senso alle proprie azioni, sono esiti che non rimuovono le problematiche di fondo del vivere ossia le strategie che alimentano il suo organizzarsi. Ciò che cambia è il riflesso, la ricaduta in termini soprattutto di percezione che i nuovi parametri della contemporaneità impongono a chi vi si trova immerso nei doppi panni di attore-spettatore.
Responsabile di un simile abbaglio, secondo Augé, sarebbe la sovrabbondanza di elementi intesa come eccesso di informazioni che impediscono di acquisire sia un punto di vista su quel che accade sia un metodo efficace di catalogazione. La storia, di pari passo all’identità dei luoghi, a festività e ricorrenze nelle quali sono piantate le radici di ognuno, alla condivisione sociale delle esperienze, meccanismo basilare del cementarsi di una comunità, sembra perdere di significato. E questo perché l’orizzonte contemporaneo, cosmo policentrico e sfuggente, non è in grado di offrire un principio di intelligibilità, almeno stando ai codici che hanno sostenuto l’avventura della conoscenza in epoca moderna. L’uomo del nuovo millennio va incontro alla storia animato da un movimento riflesso. Scendendo in metropolitana, davanti ai suoi occhi scorrono nomi di quartieri che rimandano a monumenti, battaglie, personaggi, sedimenti urbani del passato, eppure non è il coefficiente temporale a imporsi all’attenzione di chi affronta quel percorso ma una spazialità di natura meccanicistica, ripetitiva – per molti si tratta dell’itinerario che tutti i giorni conduce al lavoro o verso impegni familiari, ed è quindi lo spazio a dare un volto alla storia e non viceversa.
Così negli svincoli autostradali che ci conducono all’aeroporto o che affiancano il nostro viaggio, incidentalmente ci vengono incontro i cartelli che invitano a fare una deviazione per visitare un complesso architettonico o i resti di una villa romana. Il nonluogo, un raccordo a scorrimento veloce che serve solo a trasportarci da un posto allaltro, costeggia i luoghi della storia, i luoghi dell’identità e della relazione, ammicca alla loro presenza e alle loro ragioni ma non va oltre. L’essere umano globale «guarda e passa», anzi più spesso passa soltanto. Questo scarto prosegue e compendia per certi versi il ragionamento sviluppato in Rovine e macerie, l’altro celebre scritto di Augé. La rovina in quanto costruzione abbandonata dalla storia, non è più in grado di parlarci in dettaglio del tempo vissuto da coloro che se ne servivano, è una scheggia indistinta di un capitolo ormai sfuocato. Ma il fatto che sia ancora lì e possiamo contemplarla, ha in sé qualcosa di rassicurante, il peso del passato si stempera e si lascia scrutare attraverso un velo di nostalgia. Nelle macerie invece si avverte il deragliamento della storia. Dal latino maceria, muro di cinta non legato da calce o fatto di terra impastata (da cui si suppone il greco massein, impastare), edificato per chiudere un vigneto o un parco per la caccia, in italiano è registrato l’uso plurale indicante ciò che resta di strutture abbattute da fenomeni che recidono in modo violento il vissuto da un luogo. Può essere un bombardamento o un cataclisma, come il terremoto. Di qui l’importanza di rinsaldare subito le comunità e contribuire al ripristino dei legami necessari alla socialità di quei luoghi. Diversamente verrebbero cancellati, le macerie non diverrebbero rovine, non potrebbero neppure trasformarsi in “luoghi della memoria” perché l’unica possibilità per la memoria di preservarsi è rappresentata dagli abitanti dei territori.
Nella polarizzazione odierna di luogo e nonluogo Augé riscontra qualcosa di simile, pur ammettendo che gli incroci tra queste due realtà sono tutt’altro che infrequenti. Come le macerie, anche i nonluoghi – le aree destinate al passaggio, al commercio massificato o quelle deputate alla sosta dei disperati del mondo (campi profughi, centri di identificazione) – tendono ad annullare il patrimonio relazionale umano. Le destabilizzazioni che producono, differenti nei modi in cui avvengono, sortiscono un impatto per lo più identico. 
Da nessuna parte tuttavia si danno luoghi e nonluoghi in senso assoluto, le infiltrazioni sono anzi il vero paradigma del loro definirsi tali. L’aspetto contaminante è veicolato dagli esseri umani che attraversano di continuo entrambe le dimensioni. Nelle loro mani l’opportunità di non soccombere all’anonimia ma di farsi interpreti delle istanze di una nuova idea di spazio comunitario, sorto dallo scontro-incontro dei due poli. 
Pensiamo alle isole. Luoghi per loro definizione staccati dalla terra e forse perciò meno soggetti al mutamento o al culto dell’effimero che ovunque ci tallona. Il turismo però ha dettato le sue necessità, livellato e reso accessibile quel che in un primo tempo non era. Ha portato il mondo globale, le sue immagini, le sue nevrosi anche dove sembravano non poter attecchire e dove paradossalmente – uno dei tanti paradossi della nostra epoca – andiamo in cerca di tranquillità e ritmi del tutto differenti da quelli della terraferma. E però la natura ingaggia a sua volta una specie di lotta con le nostre abitudini, quasi avessimo due ombre. La vita isolana resta dura, anche se si va da turisti e accolti appunto dal comfort turistico. L’ambiente conserva la sua asprezza, in qualche caso è vero si tratta di mimica facciale, di una simulazione costruita ad hoc per lo sguardo del turista, ma in profondità si fa esperienza di un luogo che non si lascia addomesticare. Ed è forse anche questa consapevolezza, questa oscillazione tra un estremo e l’altro ad esercitare un richiamo così forte sui visitatori.            
In una delle sue più recenti apparizioni per la tv italiana, Augé sedeva in un caffè di Parigi. Fu un paio di settimane prima del Bataclan. Non parlò molto, stava davanti al tavolino dove qualcuno gli aveva ordinato qualcosa e disse in due parole come era cambiato negli ultimi anni il modo di condividere uno spazio così tipico della metropoli parigina – il caffè-bistrot amatissimo approdo  dei primi flâneur – alla luce della nuova generazione social. Il fatto che una decina di giorni dopo quegli spazi siano stati violati da un’altra delle fratture più estreme prodotte dall’era globale, il terrorismo fondamentalista, ha dato alle parole dell’antropologo una forza ulteriore.
Si torna così all’inizio del nostro ragionare. Le frontiere, quelle geografiche ma ancor più quelle etniche e sociali che vedono lo sconvolgente incrementarsi del divario tra ricchi e poverissimi, non vanno né ignorate né fortificate. Vanno prima di tutto comprese, perché di qui passa la vera conoscenza e il rispetto dell’altro. E nel caso del divario sociale va gradualmente limato e risolto. Questa la principale tra le sfide che ci attendono.              


(Di Claudia Ciardi)


Edizione consigliata:

Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità.
Con una nuova prefazione dell’autore,
Elèuthera, 2009



 Manifestazione per l’asilo politico "europeo" a Milano Centrale - giugno 2014




12 agosto 2016

Annotazioni su Tonio Kröger e Tristano




Entrambi del 1903, Tonio Kröger e Tristano si possono annoverare fra i capolavori assoluti di Thomas Mann, insieme a La morte a Venezia (1913) e Mario e il mago (1929). Si tratta di romanzi brevi o racconti lunghi, come si preferisce, sviluppati attorno a temi comuni. Uno scrittore attraversa un periodo di crisi creativa e perciò decide di concedersi una vacanza che in realtà rende ancora più problematica la sua condizione; un caso estremizzato in La morte a Venezia, dove il già famoso Gustav Aschenbach trova la fine dei suoi giorni nell’atmosfera astratta e decadente del lido. Materia che si presta a una riflessione sull’osservanza delle regole borghesi da parte dell’artista, e su ciò che si determina in lui quando queste norme vengono meno. Chi non è in grado di aggirarne il peso contraddittorio che esercitano sul temperamento creativo, volta le spalle al compromesso ma abbracciando una simile radicalità, se non ha dentro di sé le risorse per dominarla, va incontro alla propria irrecuperabile caduta di creatore e di uomo. 

Non mancano i riferimenti autobiografici. È un dilemma che Mann sembra essersi posto molte volte in proprio e si capisce perché ami tornarci sopra, mostrando al riguardo una congeniale disinvoltura. Nel racconto di Mario e il mago, che è del tutto autobiografico, Mann si cala direttamente nei panni dello scrittore in vacanza e intesse il suo discorso giocando su presagi negativi che col passare dei giorni prendono corpo, fino al dramma dell’epilogo.
Furio Jesi dedica pagine di grande intensità alla messa in discussione del borghesismo da parte dello scrittore di Lubecca. Il celebre critico e studioso illustra molto bene lo stallo a cui giunge l’idea dell’artista come “eroe in tensione” nell’opera manniana. Per colui che si dedica al lavoro d’invenzione è necessario profondere in ciò che fa un’energia identica, governata dalle stesse forze che regolano il lavoro borghese. Solo così la sua esistenza potrà assumere pari dignità a quelle socialmente riconosciute come valide e produttive. Ma nel momento in cui il creativo abdica alla tensione che lo tiene avvinto alla materia, i simboli della borghesia gli si rivoltano contro, decretandone la rovina. Nei due scritti che qui intendiamo mettere in maggior evidenza, Tonio Kröger e Tristano, il tema della disfatta artistica viene a innestarsi sull’incompiutezza del desiderio d’amore e dell’unione erotica. I protagonisti sono infatuati da donne che puntualmente li ignorano e nel tempo, in maniera fallace, inconcludente, rabbiosa, coltivano gelosie e rancori che sfociano in assurde nefandezze o nella presa di coscienza del proprio annichilimento. Quando Tonio Kröger osserva da dietro una vetrata la festa da ballo, alla quale partecipa la bella Ingeborg Holm, suo amore di gioventù, è tutto concentrato nel proprio egoismo, in una narcisistica contemplazione dell’amore per l’amore. Sente quanto Ingeborg è lontana da lui – e lo è sempre stata – e non è un caso che abbia scelto per compagno il sereno e pragmatico Hans, altra passione dell’adolescente Tonio. Lui sapeva già ogni cosa, essendo una di quelle creature spirituali complicate che amavano rifugiarsi nelle tortuosità artistiche, mentre i compagni di scuola andavano avanti a viso aperto, senza perdersi in lunghe meditazioni o in spossanti letture di poesia. Quando ritrova i due amici cresciuti e felici con cui era solito passeggiare lungo i bastioni della città e prendere lezioni di ballo, gli sembra di rivivere ogni istante delle passate sensazioni; inadeguatezza, umiliazione, gelosia lo stordiscono ma non lo fanno arretrare di un passo dalla vetrata. Nota infine una ragazza pallida, di aspetto fragilissimo perfino un po’ curva di spalle che forse vorrebbe essere avvicinata da lui, perché sente di somigliargli. 
Tuttavia Kröger vuole torturarsi, non potrebbe farne a meno, sa perfettamente anche questo, e la ignora. È troppo preso dalla trionfale sconfitta della propria passione, nulla può distoglierlo. Così quando la timida e misteriosa ragazza sviene davanti al suo sguardo si limita a rianimarla con parole di circostanza, e tutto finisce lì. Nel processo di formazione dell’indole letteraria di Kröger – altro tema esplorato in profondità dalla narrativa di Thomas Mann – non casualmente l’autore colloca aspetti della propria metamorfosi iniziatica. I genitori di Tonio, la scuola, le passeggiate tra i vicoli dell’antica città che si arrampicano intorno al porto, ricordano non poco l’infanzia dello stesso Mann. Vi è perfino un passo dove si può cogliere un abbozzo del magistrale saggio autobiografico che lo scrittore darà alle stampe nel ’30, in un fascicolo dello storico editore Samuel Fischer. Ci si riferisce alla confessione del protagonista relativa al suo quaderno di versi che gli avrebbe rovinato la reputazione fra professori e studenti. Tali circostanze, soprattutto l’analisi della polarità caratteriale dei genitori – il pragmatismo da stimato commerciante del padre, la creatività di ascendenza mediterranea della madre – riecheggiano anche in altri scritti come ad esempio il Bajazzo.
In Tristano il discorso sul fallimento di chi crede di essersi consacrato all’arte mentre se ne allontana senza rimedio, si sviluppa in una clinica privata per clienti facoltosi. Uno scenario che dunque ha stimolato l’estro manniano assai prima del sanatorio di Davos, alla base di La montagna incantata. Lo spazio del ricovero è la cornice ideale per la rappresentazione di quella maniacalità latente che affligge gli scrittori dannati usciti dalla sua penna. In questo perimetro di ossessioni prende forma l’oscuro signor Spinell, che gira e rigira fra le mani il manoscritto del proprio romanzo «di medie dimensioni, munito di un confusissimo disegno in copertina e stampato su una sorta di carta assorbente con caratteri tali che presi uno per uno sembravano una cattedrale gotica». La descrizione del tomo è in completa simbiosi con Spinell, si direbbe il suo naturale prolungamento. L’uomo riservato e falsamente educato quanto basta a renderlo indigesto al lettore, corteggia in maniera serrata ma senza approdare ad alcuna conoscenza biblica, l’ultima ospite arrivata alla clinica. Costei, la diafana e mite moglie di un commerciante del Baltico, viene così risucchiata suo malgrado nel vortice ossessivo dello scrittore frustrato. Una sera in cui la clinica è semiabbandonata per una gita che ha momentaneamente allontanato gli ospiti, i due si ritrovano seduti davanti al pianoforte, e Spinell incalza la gentile amica affinché esegua il Tristano di Wagner, opera per eccellenza del tormento d’amore. È una sera invernale di luce soffusa e arrendevole, che riflette il cupo bagliore della neve abbondante caduta nel giardino del ricovero. A un certo punto la porta si apre, i due supposti amanti clandestini, che però non riescono ad essere completamente amanti, sussultano. Truce, funerea messaggera di un qualcosa che sfugge alla comprensione terrena, la moglie del pastore Hölenrauch «che ha messo al mondo diciannove bambini e non è più assolutamente in grado di formulare un pensiero qualunque» attraversa la sala al braccio di un’infermiera, «trascinata da un’ebete forsennatezza». La loro improvvisata unione è quindi sancita dall’immagine stessa della malattia, perché malati sono ambedue i protagonisti che non a caso si incontrano sulla soglia del proprio male fisico e spirituale; ma pure qui i confini sono meno netti di quanto appaiano.  
Anche in questo caso le premure di Spinell nei confronti della donna sono un’allucinazione dei sensi, il rifugio dalla propria indolenza di uomo incompiuto a livello creativo e dunque esistenziale. Mentre la musa prescelta fatica a entrare in questo ruolo e, costretta a elucubrare su argomenti che le sfuggono, peggiora il suo stato di salute. Come nel poema medievale Tristano cerca di trovare consolazione all’amore infelice per Isotta, sposando un suo quasi doppio, Isotta dalle bianche mani, perché il nome e la bellezza gli ricordano l’altra, i personaggi di Mann portano in sé qualcosa di questo compiacimento per l’amore mimato e respinto, più o meno consapevoli della beffa ma incapaci di fare a meno di questa attrazione fatale. Non sorprende pertanto che il riferimento alla storia di Tristano affiori anche nell’articolato discorso di Tonio Kröger in cui tenta di definire l’essenza artistica.
Equivocare il proprio ruolo di artista attira sciagure, mina le convenzioni del quieto vivere, cosa che se già tende a verificarsi nei caratteri inclini alla creatività, rischia di deflagrare quando di tale elemento si fa un uso irresponsabile, alla stregua di un alchimista impazzito. Mann sembra giocare volentieri con simili componenti, alla ricerca di un suo personale equilibrio, per quanto ne abbia ben chiara la natura precaria e come soffra la pur minima oscillazione. Sa che ragionare attorno a questa materia gli consegna uno degli spunti più avvincenti per deformare, esasperandoli, aspetti e condizioni con cui in parte ha fatto i conti lui stesso, specie agli inizi della sua carriera. E se la cava  con estrema disinvoltura, visto che, lo ripeto, siamo di fronte ai suoi capolavori.   

(Di Claudia Ciardi)


Edizione consigliata:

Thomas Mann, La morte a Venezia, Tonio Kröger, Tristano,
traduzione di Enrico Filippini, postfazione di Furio Jesi,
Feltrinelli, 2014

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