20 aprile 2015

Giacomo Leopardi, «Questa città che non finisce mai»




Un Leopardi ventiquattrenne esce per la prima volta dalla natia Recanati e va ad abitare dagli zii materni a Roma, dove resterà per sei mesi. L’impatto con la grande città, per la quale da sempre si struggono artisti, intellettuali e ricchi rampolli europei, ha su di lui risvolti quasi traumatici. La cocente delusione di fronte al provincialismo romano e alla dissipatezza dei suoi abitanti scaccia l'inquietudine recanatese, che tanto lo aveva fatto dannare, e lascia un vuoto spaventoso. Il mondo esterno ha tradito malamente le sue aspettative. Da quel punto in poi sa che nessuna corrispondenza potrà più attuarsi tra lui e gli altri. Quella debolissima idea di preservare in qualche misura la propria interiorità trovando una via di conciliazione, un equilibrio con le necessità del vivere, sfuma in maniera così repentina che il giovane poeta stenta a ritrovarsi.  
E in ciò lo affligge un dubbio ancora più insopportabile, che anche gli altri versino in una condizione di stordimento e assoluta indifferenza simile alla sua, che la loro esistenza nella grande città sia il frutto di un clamoroso equivoco, di un volgare baratto a seguito del quale ogni germe di sensibilità è stato annientato per sempre.
Casa Antici, un palazzone cinquecentesco progettato da Carlo Maderno, in cui Leopardi occupa una stanza d’angolo al terzo piano, impone la sua mole ai vicoli del ghetto. È il simbolo di quella monumentale sproporzione che il poeta attribuisce senza troppi riguardi all’architettura romana, il cui effetto sui visitatori sarebbe di una scacchiera fabbricata per un gioco tra giganti dove tuttavia i pezzi mantengono le dimensioni abituali. Il risultato è l’impossibilità di cogliere e godere a pieno la bellezza dell’antico, il passante la intuisce solamente, il suo sguardo viene provocato ma non ci si sofferma. In altre parole l’arte che riempie Roma non determina nel frastornato Leopardi nessuno slancio emotivo. Le lettere scritte alla famiglia in quei mesi di semicattività attestano l’avvilimento per tale stato d’animo. Sono soprattutto gli sfoghi destinati al fratello Carlo a rivelarci meglio il profondo disagio vissuto per le vie di Roma: «E delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento». La città è faticosa, il lastricato mette a dura prova le sue gambe deboli, l’inverno è duro, i geloni lo tormentano, e lui alla fin fine non è proprio camminatore, la salute glielo impedisce; tuttavia non può sottrarsi alla vita in società, alle visite di rappresentanza, ai pranzi e ai colloqui cui lo trascinano i compiti e allo stesso tempo disordinatissimi Antici. 
Gli zii riflettono perfettamente tutte le incongruenze romane. Somigliano a delle bambole di pezza, fanno tutto per noia, e da ogni appuntamento tornano annoiati del doppio; soffrono di ipocondria, litigano senza sosta, mancano di riservatezza – parlano sempre davanti alla servitù anche di questioni privatissime – a tavola danno spettacolo, contendendosi bocconi, regalandosi dispetti, facendo del ridicolo chiacchiericcio. Minutezze pantagrueliche registrate da un nipote geniale che, per quanto infastidito dalla situazione in cui si trova, mostra un’impareggiabile lucidità nel raccontarcela.  
L’immensità di Roma, la città «che non finisce mai», è il ritratto della sua inafferrabilità. «Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini». Leopardi ragiona per la prima volta sugli inconvenienti dello stabilirsi in un luogo troppo grande, dove i rapporti umani necessariamente arrancano, dove solo a prezzo di un’enorme fatica si può prender parte a una cerchia se non di affetti almeno di confidenti, perché il luogo, eccedendo in estensione, contamina chi lo abita e comunica a tutte le cose la sua sconvolgente proprietà dispersiva. Ancora una volta è Carlo il destinatario di una delle più raffinate riflessioni su questa irrisolvibile dicotomia; laddove l’uomo ha bisogno di essere rassicurato, anche e soprattutto nei suoi limiti, da ciò che lo circonda, in uno spazio che continuamente sfugge alla sua comprensione non potrà che sentirsi estraneo, e lontano perfino da se stesso: «L’uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o la facoltà di rapporto è limitata. In una piccola città ci possiamo annoiare, ma alla fine i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose, esistono, perché la sfera de’ medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana. In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si riflette in verun modo nell’interno».
Pensava di venire a Roma e trovare la propria strada, mentre per sei mesi è costretto a orientarsi in un labirinto la cui tortuosità, oltre a estendersi nello spazio, moltiplica a dismisura le distanze tra le persone. Trionfo di scena del miglior Piranesi, ma qui nulla è concesso all’immaginazione. È tutto spaventosamente reale. Il sottosuolo corre così vicino alla superficie da sovvertirla di continuo. Sotto e sopra, dentro e fuori si confondono e si annullano. Qualsiasi tentativo di bloccarli in una descrizione, di trarli a sé perché divengano materia poetica è inutile. Possono solo alimentare gli sfoghi improvvisi di una lettera, nulla più. Unico prodigio, la visita al sepolcro del Tasso, luogo autentico dove si fa largo la commozione.
Il resto è solo un umiliante andirivieni, perché Leopardi è venuto in città in cerca di un incarico, ma la sua tempra si rivela da subito inadatta ai maneggi romani e ogni scalata nella società è destinata al fallimento. In apparenza è un giovane con le idee poco chiare, mentre dagli accenti dell’epistolario dimostra di conoscere bene le proprie inclinazioni e di leggere alla perfezione quelle degli altri. Non si aspetta nulla anche da quanti gli manifestano cortesia in nome della sua origine familiare e dei rapporti personali col padre Monaldo. Sollecitato a stendere perorazioni di ogni tipo, Leopardi esegue piuttosto docilmente ma col distacco di chi sa che non rimedierà mai un impiego nello Stato. Roma prende via via la sua forma sgraziata fatta di pettegolezzi, di vacuità sulle carriere dei prelati, di spregiudicatezze femminili, di insulsaggini letterarie – l’erudizione regna sovrana – dove «tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza come i cattivi cristiani in paradiso».
Ma Carlo e Paolina, quest’ultima soprattutto, seguitano a smaniare per la grande città così che il disincanto con cui il loro sensibilissimo fratello gliela racconta si trova a vibrare di una forza tutta particolare, cozzando con gli umori e le aspettative non solo dei suoi intimi ma di un’intera epoca. È un fratello pieno di premure, occupato a consolare la giovane Paolina dalle proprie pene d’amore. Nei mesi romani Leopardi cerca di sbrogliare la faccenda di un matrimonio per procura col Cavalier Marini ma anche questo affare stenta. In una lettera a Giordani narra di come un altro tentativo sia andato a monte, avendo il vecchio e brutto pretendente promesso dei denari che non possedeva. La sua scrittura è sempre estremamente franca, non abbellisce nulla né gira intorno alle vicende.
I toni grotteschi o caricaturali come anche quelli più alti, dove si affaccia un sé più malinconico e sommesso, convivono senza stridere e, dopo circa due secoli, spiccano per la loro vivacità e anche perché affatto superata è la materia di cui ci parlano.
Roma è ancora così, un corpo ormai febbricitante, patria di molte delusioni e perdizioni, afflitta da convulsioni e molteplici sconvolgimenti. La sua monumentalità dissolve ogni giorno senza che ci facciamo caso.

(Di Claudia Ciardi) 


Giacomo Leopardi,
Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma,
Con un saggio di Emanuele Trevi,
Utet extra, 2014
Euro 5,00

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